Metafisica e ontologia

V. Vitiello, “Hegel in Italia. Itinerari: I. Dalla storia alla logica. II. Tra Logica e Fenomenologia” (Inschibboleth 2018)

Recensioni

La recensione del libro Hegel in Italia di Vincenzo Vitiello a cura di Michele Ricciotti.

Hegel in Italia (Inschibboleth, 2018) di Vincenzo Vitiello si presenta come la nuova edizione dell’omonimo testo edito per i tipi di Guerini e Associati nel 2003. La seconda parte del libro, intitolata Tra logica e fenomenologia, costituisce una sezione completamente nuova, non presente nella prima edizione. Come richiesto dalla stessa impostazione “topologica” di cui Vitiello è teorico, la natura del ragionamento condotto dal filosofo napoletano si sottrae alla logica temporale del dis-corso. Anche per questo, l’indagine critica dell’autore non intende seguire un andamento “storico”, ma attraversare, per così dire, “spazialmente” l’orizzonte problematico dischiuso dalle filosofie italiane di derivazione hegeliana. Non intende seguire, cioè, «il tempo estrinseco della cronologia ma quello intrinseco del concetto» (p. 17). Croce, Gentile, Paci, Spaventa, Vera, Severino sono tra le voci che hanno contribuito a riattivare le istanze di un hegelismo tutt’altro che “pacificato”, al contrario in continua tensione con le sue stesse premesse teoriche. I titoli delle tre sezioni in cui è suddivisa la prima parte dell’opera, RelazioneAlteritàAl di là dell’essere, ben riassumono la portata delle questioni che costituiscono il cuore del testo. Anzitutto, nel primo capitolo della prima parte del volume, viene offerta una peculiare rilettura della critica di Enzo Paci alla crociana “filosofia dello spirito”. Paci dapprima riconduce la separazione crociana tra teoria e prassi alla relazione dialettica di matrice gentiliana tra atto e fatto. Evocando l’atto, Paci non ha di mira uno solo dei poli dialettici, ma la relazione stessa tra atto e fatto, la loro “attuale” creazione. Per questo motivo «[l]’atto è nella lettura di Paci il non-conosciuto e non-conoscibile che si contrappone al conosciuto ed al conoscibile – è il limite del sapere» (p. 44), ciò che resta sempre presupposto al movimento demiurgico-conoscitivo del pensiero. In tale “potenza” che precede ed eccede l’orizzonte del pensare non è difficile riconoscere la lichtscheue Macht, «la potenza che ha in orrore la luce» (p. 180) di cui parla Hegel nella Fenomenologia e verso cui Vitiello invita a rivolgere uno sguardo che ne rispetti e conservi l’irriducibile “alterità”. All’interno di questa prospettiva esegetica viene indicato il luogo della autentica e “intima” affinità tra Croce e Gentile: ciò che il sentimento è per il Gentile della Filosofia dell’arte in Croce assumerà il nome di “vitale”. A parere di Vitiello, Paci si approssima a quell’“abisso della ragione” rappresentato dalla materia pura, l’ingens sylva di vichiana memoria, non mediabile né intellegibile, salvo subito discostarsene, continuando così a leggere la storia dal privilegiato punto di vista dell’uomo “logico”. Segue una profonda rilettura del rapporto tra giudizio e sillogismo in Hegel, finalizzata a mostrare come l’operazione hegeliana termini nella piena coincidenza di Essere e Giudizio, salvo lasciare aperto un varco, un residuo di oggettività non “redenta”, nel passaggio dalla Fenomenologia alla Logica. Tale passaggio è originariamente una Entschluß, una “risoluzione”, un atto di volontà (cfr. p. 89). Vi si può riconoscere quello stesso “altro” che nella proposizione speculativa rimane “interiore”, nascosto. «La proposizione – scrive Vitiello commentando i principali luoghi della Vorrede alla Phänomenologie des Geistes – deve esprimere ciò che il vero è: la contraddizione pura dell’andar oltre che ritorna in sé; il movimento del dire che lotta col silenzio per portarlo a parola, e nel portarlo a parola ad esso si rimette; il “soggetto”, la prassi del dire che disdice, e disdicendo dice» (p. 179). Il movimento dialettico hegeliano viene inoltre presentato da Vitiello come progressiva negazione di ogni forma determinata, in-finitizzazione di ogni finito. Ma per non rendere tale movimento a sua volta un “finito”, un determinato, è necessario porsi all’interno del suo flusso, inserirsi nella corrente per coglierne la legge dall’interno. È quanto tenta di fare, con radicalità raramente eguagliata, Giovanni Gentile. Il pensatore di Castelvetrano eredita l’aporia squadernata da Hegel relativa ad un divenire che, per essere se stesso, cioè divenire, deve divenire, e divenendo è divenire. Le due “logiche”, quella del divenire (e della contraddizione) e quella dell’essere (e dell’identità), devono trovare una sistematizzazione in grado di stabilire il ruolo della seconda nella prima. Senonché Vitiello mostra come lo sforzo gentiliano di pensare l’identità nella contraddizione naufraghi di fronte alla necessità di collocare nell’astratto il medesimo dialettismo che anima il concreto: «quando [Gentile] osserva che “Io=Io” non è riducibile ad “A=A”, perché l’”Io”, ponendo se stesso, è piuttosto “=non-Io”, è facile replicare che lo stesso si può ripetere, pari pari, per A=A […]. [L]’eguaglianza dei due “A” non toglie la loro differenza; se la togliesse non ci sarebbe più giudizio. Pertanto “A=A” è propriamente “A=non-A”» (p. 139). Lo sforzo speculativo di Emanuele Severino è tutto votato a “provare l’identità” oltre l’aporia del divenire cui mette capo Gentile. Da Severino l’identità viene assolutizzata, essa «non ammette altro accanto a sé, né dentro di sé» (p. 160), ma, proprio per salvaguardare l’identità determinata dell’ente e sottrarre quest’ultimo dall’isolamento, Severino si vede costretto ad identificarlo con l’insieme delle sue relazioni. Sviluppando tali premesse, Vitiello mostra come proprio l’identificazione di ogni soggetto con la totalità dei suoi predicati costringa ad ammettere che l’identità non riesce a determinarsi: «La sottrazione della cosa al suo isolamento, anziché determinare la cosa, la in-determina» (p. 165). All’identità severiniana, fondata sull’inscalfibile imperio del principio di non contraddizione, Vitiello oppone la radicale concretizzazione del divenire che Hegel guadagna nelle pagine della Scienza della Logica dedicate all’essenza. Quest’ultima dice la verità dell’essere: il divenire non è il passaggio dall’essere al non essere, ma l’originario non essere dell’essere, la sua essenza (Wesen) è quindi il suo “stato”, il suo “essere passato” (gewesen). Ciò fa sì che il divenire stesso non si arresti mai nella quiete dell’esser-divenuto, esso è possibilità pura che custodisce in sé la propria negazione. A questo livello si innesta la valorizzazione del contributo di Bertrando Spaventa, il quale, più di ogni altro interprete di Hegel, avrebbe colto quella residuale “trascendenza” che inquieta lo stesso sistema del pensatore tedesco. A Spaventa sono dedicati ben quattro dei saggi che compongono il volume: P. I, sez. III cap. II: Prima dell’Essere (Quod esse praecedit); P. II, cap. I: Sillabare Hegel. Rileggendo Bertrando Spaventa interprete di Hegel; P. II, cap. II: Due divergenti letture della Fenomenologia dello Spirito: Augusto Vera e Bertrando Spaventa; P. II, cap. IV: I due ‘cominciamenti’ nell’interpretazione spaventiana di Hegel. Nel filosofo abruzzese (e in particolare nella lettura di Hegel da lui offerta) diviene centrale il tema del “cominciamento” e, insieme, dell’uno che è “prima” del pensare e che è da quest’ultimo “prevaricato”. A tale questione Spaventa perviene ancora una volta a partire dal problema dell’identità. Non di un’identità tra le altre, ma dell’identità suprema, dell’identità, cioè, tra essere e pensiero, quell’identità la cui “prova” coincide con la “prova” della “creazione”. La ricerca di tale “prova” è ciò che rende Spaventa insoddisfatto tanto della soluzione fichtiana, volta a porre una relazione inevitabilmente sbilanciata da uno solo – il soggettivo – dei poli fatti essere dalla relazione stessa, quanto di quella schellinghiana, costretta a rimettere l’identità tra pensiero ed essere a una “intuizione intellettuale” che, lungi dal “provare l’identità”, «semplicemente la presuppone» (p. 206). Vitiello insiste particolarmente sulla priorità “genetica” della Fenomenologia sulla Logica e sull’importanza ricoperta dalla prima nella stessa lettura spaventiana di Hegel: «Muovere dalla Fenomenologia significa per Spaventa muovere dal reale, dal fatto, per ritrovare in questo il pensiero, l’attività. Solo così l’“oggettività” della scienza non sarebbe rimasta chiusa nell’ambito del pensare. Ritrovare il pensiero nell’essere era il primo compito che il programma «provare l’identità» dettava» (pp. 208- 209). Stante la necessità di portare a compimento tale programma, Spaventa mostra l’indimostrabilità del primo fenomenologico, ciò da cui prende avvio l’intero itinerario al termine del quale è dimostrato l’esser ultimo del primo, vale a dire il suo esser primo solo nel toglimento della sua stessa primarietà. Contro lo Spaventa “attualista” di cui si appropria Gentile, Vitiello mostra l’irriducibile differenza tra l’essere del pensiero (l’essere che il pensiero nega e, negandolo, genera) e l’Essere che è prima e di là dal pensiero, l’“altro”, il Prius assoluto che nessun atto logico può consumare nella sua immanente attualità. Anche là dove più sembra anticipare il pensiero all’essere, tradendo così l’intento hegeliano di iniziare dal puro indeterminato, Spaventa si rivela «pienamente consapevole che l’Essere da cui muove il pensiero non è ‘posto’ dal pensiero più di quanto non sia ‘presupposto’. Egli, cioè, è pienamente consapevole che l’Essere è il presupposto ‘interno’ del pensiero: presupposto del pensiero solo nell’atto in cui è riconosciuto dal pensiero, e cioè solo nell’atto in cui il pensiero si pone, pone sé e, ponendo sé, fa dell’Essere, del “punto da cui muove”, il suo presupposto» (p. 317). È in tale riconoscimento del presupposto in quanto presupposto che Spaventa si dimostra massimamente fedele ad Hegel, financo nell’affermazione della differenza tra l’Essere «presupposto interno del pensiero» e l’Essere “semplice”, che «non dice Essere, non dice È, non dice punto». Certo molto più fedele di quanto non si dimostrerà Gentile, con il suo tentativo di rovesciare il rapporto hegeliano tra intelletto e ragione. Nel terzo saggio della seconda parte del volume, intitolato Ut pictura in tabula. Concreto e astratto nella Logica di Giovanni Gentile, Vitiello torna sul problema della dialettica gentiliana, mostrando anzitutto come essa rimanga in aporia nella Teoria generale dello spirito come atto puro, giacché ogni possibile distinzione tra pensante e pensato naufraga nella misura in cui il pensante, nel suo distinguersi dal pensato, si trova immediatamente ridotto a “pensato”, vedendo così negato il suo essere pensante, laddove un pensante che voglia rimanere tale, non affetto da alcuna distinzione né determinazione “storica”, finisce per non riuscire a costituirsi come “atto in atto”, creatore di mondo e di storia. Aporia che rimane, seppur elevata ad un più alto grado di consapevolezza e di complessità, anche nel Sistema di Logica, ove la dialettica pensante-pensato lascia il posto a quella concreto- astratto. Ancora una volta il problema non è il darsi o meno del divenire, quanto la relazione del pensiero con il divenire stesso, la capacità di darne ragione. Vitiello riconduce tale aporia al Parmenide platonico, all’impossi- bilità di definire la relazione, il medio, tra quiete e movimento, giacché il passare della prima nel secondo implicherebbe un esser già movimento prima di esserlo, laddove il movimento, passando alla quiete, continuerebbe ad essere movimento (cfr. p. 356). È questa aporia che Gentile tenta, se non di risolvere, quantomeno di approfondire, ripensando radicalmente il rapporto tra l’intelletto e la ragione, la vita e le forme in cui essa si manifesta ed esprime. Forme che non sono dopo la vita, ma sono la realtà del suo stesso movimento, la «colonna adamantina» che sorregge il vero. Senonché Vitiello ancora una volta mostra come il giudizio più semplice, A=A, che è lo stesso mostrarsi di A ed il suo unico esistere (ché di un qualsiasi A prima del suo essere giudicato non si potrebbe nemmeno predicare l’esser A; esso non sarebbe nulla, sarebbe, per l’appunto, un nulla), non faccia altro che riflettere, ripetendolo, il movimento dialettico del concreto. «La colonna adamantina del vero, l’eterno, trema. E non per l’intervento del pensante che da dentro s’agita e l’agita. No, trema di suo tremore, si muove di suo movimento» (p. 361). È il naufragio della logica del divenire, il punto in cui questa si riconosce identica alla logica dell’essere, sottomessa alle sue leggi e massimamente reverente al principio unitriadico del pensare. A corredo del testo, cinque importanti apparati: tre appendici alla prima parte – dedicate rispettivamente alle diverse letture, crociana e gentiliana, del materialismo storico di Marx (La prassi tra struttura e storia, pp. 239- 264), all’interpretazione del Barocco offerta da Croce e da ultimo messa in relazione con quella proposta da Benjamin (La carne e lo spirito, pp. 265- 282) e ad una comparazione tra Gentile e Plotino per quanto riguarda il rapporto tra Uno e Pensiero (Dell’Uno e del Pensiero, 283-298) – e due excursus alla seconda, consacrati ad un confronto tra Croce e Karl Barth a proposito del complesso rapporto tra storia ed eterno (La Grazia e il libero arbitrio. Un “improbabile” confronto: Barth e Croce, pp. 413-421) e all’originale rilettura dell’attualismo sviluppata da Andrea Emo (Emo, o della negazione, pp. 423-435).

(Recensione pubblicata su Quaderni di Inschibboleth, n. 13/2020)