Estetica e filosofia delle arti

Neoplatonismo e teologia

Recensioni

In questo volume, il sesto pubblicato nell’ambito del progetto del Dizionario Dinamico di Ontologia Trinitaria, a essere riletto è uno dei temi classici dell’incontro-scontro tra la filosofia greca di matrice neoplatonica e la spiritualità ecumenica di radice cristiana: il mysterium del Deus-Trinitas. Nell’introduzione, Vito Limone ci avverte che il mistero è, etimologicamente, inventio (p. 11): scoperta e costruzione insieme, rinvenimento che esige dalla filosofia un ripensamento creativo delle proprie categorie concettuali. L’inventio implica, in primo luogo, l’abbandono del pregiudizio di un’ellenizzazione del cristianesimo: la riflessione patristica non sorge come qualcosa di estraneo alla cultura greco-romana, di cui recupererebbe le forme, bensì incarna un fenomeno di assoluta novitas all’interno di un processo organico che include anche gli eventi della predicazione gesuana. I Padri si appropriano della filosofia facendone un uso critico e selettivo (χρῆσις): le categorie filosofiche, imprescindibili per lo sviluppo dogmatico del cristianesimo, non sono stravolte, bensì recuperate e raffinante; il contenuto della Rivelazione, immutabile, risemantizza l’organica mutevolezza delle forme greco-romane. Questo processo, precisa Ilaria Vigorelli, esibisce a ogni passo l’eccedenza del fatto sul concetto, dell’evento in rapporto alle forme, della relazione rispetto all’astrazione (p. 20): la verità del pensare è, cioè, smossa e scossa da una Verità (il Cristo) ontologicamente non riducibile a formule, giudizi, proposizioni, sillogismi. Ciò testimonia una duplice irriducibilità: quella della filosofia patristica alla filosofia greco-romana; quella di Cristo, Verità che è Vita, alla riflessione, storicamente determinatasi, degli scritti dei Padri. Tale iato ci dice l’impossibilità di costringere l’infinita ricchezza del Senso nell’angustia dei significati.

La filosofia patristica rappresenta l’avvio di una tradizione che si sforza di pensare un fatto storico, l’Incarnazione, esibendone la pretesa all’universalità nella prospettiva più ampia che riconduce la storia dell’uomo alla storia della salvezza. Nell’ambito di questa tradizione, che dura da due millenni, il IV secolo rappresenta il momento decisivo, lo spartiacque dell’intero processo: il problema della Sintassi che lega in Uno le Tre Persone è approfondito alla luce dell’aporia della relazione dei molti all’Uno, tipicamente neoplatonica. Aporia rigorosissima la definisce, nel primo dei tre contributi, Massimo Donà (p. 27): quella per cui, a essere assolutamente non-diverso in sé e da sé è solo ciò che risulta assolutamente diverso dai differenti. Il non-diverso, l’indifferente, si costituisce nell’assoluta differenza dai diversi: non, dunque, come una positività determinata che sia altra rispetto a un’altra positività determinata. Il nodo aporetico si fa stringente: che relazione intercorre, allora, tra l’Uno, principio del tutto, e il tutto che dall’Uno procede? Aporia ineludibile, plastica nella sistemazione chiastica che le darà Damascio, l’ultimo grande scolarca dell’Accademia. Le pagine di Donà richiamano quelle del De principiis. L’Uno, totalmente trascendente, è il principio del tutto e, dunque, in qualche modo immanente al tutto in virtù della relazione principiale: se si insiste sulla trascendenza dell’Uno rispetto al tutto, si dovrà concludere che il tutto non è il tutto; se insiste sull’immanenza, si dovrà concludere che l’Uno è parte del tutto, e dunque non è principio (venendo meno l’attributo principale di ogni principio, la trascendenza). Donà, come Damascio, rileva l’aporeticità radicale di ogni tentativo di pensare la relazione tra l’Uno e i molti, stante l’impossibilità di tenere in uno la trascendenza e l’immanenza del principio rispetto ai principiati. L’Uno parzializza il tutto, lo ferisce, ne mostra la manchevolezza rivelandone la paradossale incapacità di essere ciò che dice di essere: il tutto è il tutto perché non ha in sé il principio, tanto che il distinguersi può apparire solo distinguendo l’indistinguibile (p. 32). L’Uno istituisce la totalità destituendone le pretese totalizzanti: è assolutamente altro dai molti, eppure li contiene totalmente come negati. Negati: non, cioè, risolti nella sua assoluta semplicità, bensì come sono per se stessi. L’Uno ha in sé i molti come molti, non come uno; ed essendo loro vita immanente, che di nulla manca proprio perché comprende in sé anche ciò che è mancante. La lettura che Donà offre della henologia plotiniana è allora ben lontana dalle classiche esegesi che riducono l’Uno a un principio astrattamente trascendente, così slegato dal mondo da negare la propria natura di causa e da costituirsi come il puramente indeterminato, astratta negazione di ogni determinatezza e semplice contrario dei molti. L’Uno è piuttosto ciò che fa delle singolarità, prima ancora che qualcosa di unitario e unificato, qualcosa di unico: nell’unicità di ciascun evento, foss’anche il più effimero degli accidenti, risplende l’interezza del Principio, che rivela la manchevolezza di ogni cosa come sua intrinseca perfezione.

Nel secondo contributo, Giulio Maspero sottolinea che l’aporia neoplatonica della relazione tra l’Uno e i molti lascia in eredità al IV secolo una tensione. Essa è, insieme, apertura a una nuova ontologia relazionale: un’ontologia trinitaria che è tale perché, proprio essendo un’ontologia della Trinità, implica inscindibilmente un’ontologia dalla Trinità (p. 55). La filosofia dei Padri si vede consegnare dal mondo greco-romano una metafisica che è ormai sistema di aporie: in ciascun nodo si riflette l’incapacità di risolvere in un risultato quietato il rapporto tensivo tra l’Uno e i molti. Maspero mostra che il problema a cui i Padri devono far fronte è contrario rispetto a quella tipica dei neoplatonici, per cui è inammissibile pensare l’Incarnazione dell’Assoluto: ammessa come di per sé evidente l’immanenza di Dio nel mondo (Dio è il libero Creatore, che fa tutto le cose per mezzo del Verbo Incarnato), risulta aporetico giustificarne la trascendenza. In un primo tempo, trascendenza e immanenza divengono attributi rispettivamente del Padre e del Figlio, ma a scapito dell’unità sostanziale (Giustino, Clemente Alessandrino). La necessità di pensare una sostanza che sia di per sé e trascendente e immanente è risolta da Atanasio: il Padre genera il Figlio perché volontariamente fa dono di sé, così come il Figlio ama il Padre perché volontariamente si ridona; questa reciprocità di amore e volontà non è indizio di una mancanza, bensì di identità sostanziale, per cui unica è la volontà e la sostanza del Dio Trinità. Per i filosofi greci, perfetto è solo il pensiero divino, che è non è relazionale perché totalmente autosufficiente, mentre la volontà – e, con essa, l’apertura alla relazione – nasce da una deficienza. Il Dio cristiano, invece, è Amore perché dono volontario, assoluto, eterno, incondizionato, irrevocabile: è Uno perché relazionale, è Uno perché Trino. Non si tratta di una volontà che voglia qualcosa di altro ed esterno, bensì di un’unica volontà che vuole se stessa, che è di per sé relazione. L’aporetica neoplatonica è ribaltata: non si tratta di dedurre i molti dall’Uno (le Tre Persone dall’unica sostanza), bensì di concepire l’unità sostanziale a partire dal miracolo per cui alla sostanza divina non accade la relazione, bensì è la relazione. I tre Cappadoci (Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa) traggono le conseguenze ultime di questo rinnovamento ontologico, sottolineando che in Dio la distinzione personale non dice alterità sostanziale, perché la relazione non accade alla sostanza (non è un accidente, men che meno il più debole), bensì esprime la sostanza.  Ciò consente di rileggere anche l’antropologia classica: poiché si legge “facciamo l’uomo a nostra immagine” (Gn 1,27), se ne deduce, sottolinea Gregorio di Nissa, che l’unica sostanza ha creato un unico modello che rispecchia la sua natura relazionale. Lo iato tra il Creatore e la creatura è l’impossibilità, per quest’ultima, che la persona coincida con la natura: la distinzione si fa nell’umanità vera e propria alterità di persone. La finitudine del pensiero umano si scontra con il suo desiderio di infinito: da questa crisi sorge il riconoscimento della perfezione insita nella finitudine quale costitutiva apertura relazionale. Questa somiglianza fa sì che l’uomo sia liberamente aperto alla divinizzazione come processo interminabile di perfezionamento, dal Nisseno indicata col sostantivo ἐπέκτασις – termine con cui si indica l’azione continuata di un tendersi verso qualcosa a partire da un punto con cui deve costantemente rimane in contatto. La “fuga plotiniana diventa, così, incontro” (p. 86).

Nel terzo contributo, John Milbank spiega in che senso la Trinità si configuri come il mistero per eccellenza: non un rompicapo esauribile in qualche asserzione veritativa, bensì la fonte insondabile di tutte le verità del pensiero. Dio si è umanizzato affinché non solo l’uomo, ma il cosmo tutto intero, venissero divinizzati. La creazione viene così a essere intesa come un momento della pericoresi intradivina, che per mezzo del Figlio si relaziona al Padre e allo Spirito. L’eccedenza del Padre rispetto al Figlio e del Figlio sul Padre è risolta nell’identità sostanziale dei due con la relazione reciproca (lo Spirito). Non può esservi una sostanza che sia relazione se la relazione non è al contempo mediazione: non vi è relazione sostanziale senza mediazione sostanziale (p. 95). E poiché Dio è la totalità che ha in sé tutto, l’eterno che contiene eternamente e necessariamente il contingente, quanto detto getta una nuova luce sulla relazione tra il Creatore e le creature: Dio crea perché la creazione è in Lui come una possibilità; meglio ancora, Dio crea per potersi incarnare. L’uomo, impossibilitato a pensare se non in termini di individuazione incontraddittoria – X è X, dunque non è non-X – si ferma dinanzi al mistero di un’identità che media se stessa, di un’unità che è sostanziale distinzione. Sia per sé che per la creazione, Egli è un dinamismo costante di situante e situato, un “Dio narrativo” che insegna come “la rivelazione della Trinità è la rivelazione dell’ultimità dell’amore” (p. 101), e che questa rivelazione esprime la sostanziale incomprensibilità di Dio, e per noi e per se stesso. La beatitudine sorge dall’inesauribilità del mistero, dell’inventio che rende la conoscenza un processo senza fine: tale mistero trinitario si riflette nell’uomo, immagine trinitaria, e perciò insondabile, del Dio Trinità.