Metafisica e ontologia

Il trascendentale tra filosofia e psicoanalisi

Recensioni

Ne L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica (1975), lo psicoanalista cileno I. M. Blanco invitava la filosofia e la psicoanalisi a stipulare un’alleanza, ritenendo la riflessione filosofica l’unica forma di sapere capace di mettere a fuoco i problemi dell’inconscio descritto da S. Freud e della sua logica. La sfida lanciata da Blanco, tuttavia, ha riscosso un successo affatto modesto: tra la psicoanalisi e la filosofia, nelle sue varie declinazioni, sussiste ancora troppo spesso un rapporto di reciproca ostilità; d’altra parte, mentre la prima accetta malvolentieri le assunzioni metafisiche della seconda (o, parimenti, la riduzione del problema della coscienza a quello della mente, o dei neuroni, operata tendenzialmente dai filosofi analitici), la filosofia sembra a sua volta voler rinunciare alla pratica dell’analisi, ritenendola eccessivamente contaminata dall’empiria, e quindi estranea al proprio progetto epistemologico trascendentale.

Al contrario, uggerendo un’inversione di tendenza rispetto alla contrapposizione tra le due discipline, L’inconscio e il trascendentale. Saggi tra filosofia e psicoanalisi (Orthotes, Napoli-Salerno 2023) di G. Leghissa mira a promuovere la collaborazione, la convergenza, tra le indagini filosofica e psicoanalitica.

Peraltro, già nell’introduzione del suo testo, Leghissa specifica immediatamente che la filosofia in grado di dialogare con la psicoanalisi, nel panorama contemporaneo, sia quella di matrice fenomenologica – in particolare, quella di Husserl e dei suoi interpreti francesi, Derrida in primis. In effetti, l’istanza della soggettività, che il padre della fenomenologia aveva finito per presentare come un «personaggio concettuale» (p. 5), avrebbe trovato un’esplicitazione ulteriore presso i fenomenologi della seconda metà del Novecento, i quali ne avrebbero valorizzato la genesi e la struttura corporee, desiderative, pulsionali, inconsce in senso lato, squadernando i termini di un’indagine in grado di intercettare facilmente alcuni dei risultati raggiunti dalla psicoanalisi (pressappoco) negli stessi anni; in questo senso, la convinzione che guida il testo di Leghissa è quella secondo cui «un pensiero filosofico che voglia fare i conti con l’inconscio deve confrontarsi con l’ipotesi che quest’ultimo non sia solo il nome di un’istanza psichica, ma anche ciò che permette di vedere quel che la filosofia non vede quando opera in vista di una chiarificazione concettuale» (p. 7). Di conseguenza, la filosofia, mediante la psicoanalisi, deve rivolgersi a ciò che è presupposto  dal proprio apparato concettuale, all’inconscio che precostituisce e dissemina di sé «l’esperienza del soggetto» (p. 13).

L’intreccio tra fenomenologia e psicoanalisi, dunque, mostra come quest’ultima, mettendo analiticamente a tema il processo con cui il soggetto cosciente diviene tale, risulti in grado di assurgere a una prospettiva trascendentale. Eppure, l’indicazione del legame tra filosofia e psicoanalisi, nell’economia dell’argomentazione di Leghissa, esula dalla mera analisi comparativa, divenendo piuttosto il l’occasione per ripensare il senso del trascendentale,  risolvendolo in una forma di prassi discorsiva che rinuncia a ogni forma di verità assoluta o ultima sul piano speculativo – accogliendo cioè, in sé, persino «un’antropologia della conoscenza» (p. 135). Problematizzando fenomenologicamente il postulato di una sua distinzione dall’istanza dell’empiria, il trascendentale si concreta e si sostiene ricusando ogni distinzione netta dall’orizzonte empirico, dacché «il soggetto trascendentale e il soggetto empirico sono lo stesso» (p. 6).

Ora, la rimodulazione del trascendentale proposta da Leghissa viene sviluppata nel corso di quattro capitoli che, coerentemente con l’approccio utilizzato dall’autore molto spesso nel suo testo, vorrei ripercorrere tramite un esercizio di “decostruzione”, leggendoli cioè a rovescio.

D’altronde, è soltanto nell’ultimo capitolo che Leghissa delinea, in termini filosoficamente espliciti, la concezione ontologica (paradossale) sottesa a una fenomenologia che volesse trovare nella psicoanalisi un’alleata, tematizzando il paradosso che ogni ontologia veicola e suggerendo per ciò stesso il dialogo della fenomenologia con la psicoanalisi. In effetti, nei termini de L’inconscio e il trascendentale, un’ontologia pura, la quale ponga – aristotelicamente –  l’identità dell’essere e dell’uno, risulterebbe semplicemente impossibile, come del resto buona parte della filosofia novecentesca ha mostrato: l’unità emerge come predicato irriducibile all’essere, destinato a perdere a sua volta il carattere dell’assolutezza, risolvendosi in una molteplicità di relazioni, poiché anche il semplice «dire qualcosa sull’uno significa automaticamente rendere visibile l’intera rete di relazioni» che lo contraddistingue (p. 109): di fatto, «di uno ce n’è più d’uno» (p. 132).

La tesi avanzata da Leghissa, inoltre, reca con sé due corollari ulteriori, ampiamente sviluppati nel corso del testo: 1/ il soggetto emerge come una realtà costitutivamente finita, vale a dire 2/ dotata di una razionalità incapace di totalizzare l’esperienza, riconducendola a un fondamento: occorre quindi «prendere atto che uno sguardo capace di dominare con un solo colpo d’occhio questa articolazione non è possibile» (p. 110). La ragione umana, e la sua espressione filosofica in modo particolare, dovrebbe pertanto ammettere l’impossibilità di raggiungere qualsiasi fondamento, senza tuttavia rinunciare alla pratica della fondazione che la caratterizza in quanto istanza trascendentale, limitandosi a respingere solamente il tratto  tracotante di un lógos che pretenda di fissare definizioni uniche e univoche per conoscere la realtà. Occorre ammettere, secondo Leghissa, che la filosofia, pur non attingendo a nessun fondamento, rivela una vocazione fondazionale nella misura in cui rileva la simbiosi dell’empirico e del trascendentale, operando nel senso di una loro  riduzione unaria, unificandoli (p. 142). Se la «fondazione risulta interna al piano dell’esperienza» (p. 20),  senza pretesa di assolutezza definitiva o definitoria;, la logica della filosofia, di conseguenza, deve aprirsi alla pratica metaforica, ammettendo i limiti del proprio perimetro epistemico trascendentale, poiché la metafora riflette «l’idea che dell’origine non ne sia più nulla» (p. 117).

Ma non solo: la filosofia, secondo l’autore de L’inconscio e il trascendentale, nel concedersi all’istanza del metaforico, riconoscendo quindi l’indeterminatezza fondamentale che la caratterizza, deve altresì resistere alla tentazione di assumere la metafora al proprio servizio, vale a dire di istituire una «metaforologia», fondata su un «adeguato concetto filosofico della metafora» (p. 119; corsivo mio). Una tale metaforologia, infatti, non farebbe che ribadire ancora il primato di una ragione affatto “razionale”, di stampo “illuminista”, riducendo l’indeterminatezza guadagnata a semplice parvenza, istituendo una distinzione tra “proprio” e “figurato” «tutta interna al discorso filosofico» (p. 120). L’indefinitezza semantica della metafora assunta filosoficamente, allora, nel certificare l’impossibilità di una conoscenza assoluta, risulterà in grado di descrivere una realtà che si risolve in schematizzazioni e modalizzazioni, quindi nell’interpretazione del suo carattere contingente, evenemenziale, temporale – ontologicamente paradossale ma fenomenologicamente evidente, dunque rilevante. La realtà, afferma Leghissa, rivela il proprio essere sempre nel tempo, vale a dire mediante uno schema che rende questo stesso essere riconoscibile secondo un parametro modale, e quindi nell’intreccio tra istanze trascendentali ed empiriche (cfr. p. 113).

Stando così le cose, l’impossibilità che l’essere si costituisca quale assoluto – e quindi: la necessità di guarire dalla «malattia ontologica» (p. 11) – non costituisce la premessa di un discorso nichilistico, per Leghissa, invitando piuttosto a riflettere sulla possibilità di fondare e istituire un orizzonte di riflessione trascendentale indipendentemente dall’ossessione totalizzante che necessita e rimanda a un fondamento ultimo. Leghissa si limita cioè, più semplicemente, a suggerire una fenomenologia fondata sulle relazioni e il loro costituirsi, che inauguri una filosofia fenomenologica. Da qui, peraltro, discende il risvolto etico dell’indagine condotta in L’inconscio e il trascendentale, messo a fuoco nel terzo capitolo del testo: nella misura in cui l’esercizio trascendentale della razionalità umana testimonia l’infrangersi dell’unità dell’essere, quindi la sua consistenza relazionale, e allorché la medesima riflessione si risolve in una pratica discorsiva che rinuncia a ogni pretesa fondazionalistica sticto sensu, diviene necessaria una considerazione delle regole che rendono possibili le relazioni tra soggetti parlanti, definendo le loro interazioni, «in vista dell’elaborazione di un discorso sull’emancipazione e sulla liberazione» (p. 71). D’altra parte i soggetti linguistici, pur essendo intrinsecamente finiti, devono poter esercitare la propria libertà, vale a  perseguire l’ideale dell’integrità etica nelle relazioni. La prospettiva teorica indicata da Leghissa, lungi dal riesumare il senso dell’autonomia della razionalità illuminista, mira piuttosto all’istituzione di un pensiero liberale e, di fatto, autenticamente egualitario: l’etica a cui la filosofia può aspirare non è in grado di «sostenere la fiducia nel gesto di svelamento su cui si fonda il progetto illuminista» (p. 77), rilevando piuttosto la finitezza della ragione stessa, e per ciò stesso «l’arcanum imperii»secondo il quale «a comandare non è la legge in quanto tale», in senso assoluto, fondamentale, «ma il suo fantasma» (p. 88).

Invero, il senso della relazione tra individui, veicolata da ogni fenomenologia, aveva già trovato una prima forma di specificazione nel capitolo secondo del testo di Leghissa, laddove l’autore aveva trattato della relazione amorosa, indicando altresì l’insufficienza «di un approccio unicamente filosofico al problema» (p. 51): la relazione d’amore, in effetti, pone in maniera paradigmatica il problema dell’identità del soggetto (per l’appunto come relato), la quale si concreta in un rimando – sostenuto dal desiderio – a un altro da sé; quest’ultimo, inattingibile in quanto tale, risulta narrativamente raccontabile, ovvero describile tramite «l’ausilio di una teoria della narrazione dotata di solide basi antropologiche» (p. 51). Detto altrimenti, la relazione amorosa, secondo Leghissa, testimonia che l’identità del soggetto amante non è mai data di per sé, o una volta per tutte, costituendosi continuamente nel riferimento a un’alterità, secondo una dinamica desiderativa e pulsionale che ammette una “razionalizzazione” soltanto nel racconto, a partire dalla costruzione (mai ultimativa) dell’identità dei soggetti in gioco. D’altronde, «il soggetto desiderante» (p. 61) risulta irriducibile al sapere filosofico o ai suoi canoni razionali, celando in sé un’antinomia che lo proietta al di là della concettualità logica, resa piuttosto dalla «scena in cui l’assente viene reso presente narrativamente, e il soggetto desiderante può gestire lo spazio discorsivo che rende possibile una attribuzione di senso alla distanza o all’assenza» (p. 63).

Tuttavia, ben più che nella relazione amorosa, il paradosso che accompagna l’istanza dell’identità del soggetto (essente sempre in rapporto ad altro) si riflette nella relazione didattica e pedagogica tra insegnante e allievo. La pratica dell’insegnamento, si legge nel primo capitolo di L’inconscio e il trascendentale, mostra la costituzione relazionale del soggetto, riflettendo altresì – su livelli diversi – il paradosso che ne de-finisce la razionalità: 1/ anzitutto, la relazione tra maestro e allievo trova la propria fondazione nel rimando a una forma di sapere totalizzante, inteso quale presupposto del discorso, ma per definizione non raggiungibile: si tratta della connessione della «scomparsa di uno sguardo totalizzante dalla scienza filosofica con l’assunzione secondo cui la finitezza del soggetto del sapere è costitutiva» (p. 19), vale a dire del fatto che «del presupposto non si può dare conto in maniera definitiva» (p. 21). Così facendo, di fatto, l’esercizio dell’insegnamento consente di ripensare il ruolo epistemico e trascendentale dell’enciclopedia, a cui la razionalità umana non può fare a meno di tendere. Secondo Leghissa, la nozione di enciclopedia assunta come orizzonte complessivo ed esaustivo del sapere a disposizione dell’essere umano, quindi nella forma di una sommatoria onnicomprensiva e poggiante su un fondamento ultimo che la co-ordina, risulta  sterile poiché ingannevole, e pertanto necessita di un ripensamento: «Se il progetto filosofico legato all’idea di enciclopedia ha ancora un senso, questo può presentarsi, in chiave fenomenologica, solo come descrizione interminabile dei modi attraverso i quali opera di volta in volta la fungenza del mondo della vita» (p. 22). L’episteme enciclopedica cui la razionalità aspira, al contrario, deve assumere la forma del rizoma: «L’enciclopedia perde i caratteri del sistema de iure chiudibile e assume una forma rizomatica, diviene disseminazione di pratiche discorsive che si intrecciano le une con le altre senza poter mai lasciar trasparire un’unica arché quale origine assoluta» (p. 20). 2/ Inoltre, il paradosso veicolato dalla pratica pedagogica si riflette a un livello ulteriore; infatti, il presupposto totalizzante a cui la didattica aspira (in maniera sempre fallimentare) si incarna nella figura del maestro, col quale l’allievo, nel suo percorso formativo, deve potersi identificare preservandone l’alterità, riducendolo così  a «fantasma» (p. 29): l’allievo deve cioè unirsi al maestro in un pensiero che non può assimilare condividendolo totalmente, pena il dileguarsi dell’autonomia nell’esercizio della propria ragione: «Uccidere il maestro per diventarne degni discepoli e completarne l’opera è un gesto decisivo: se il sapere si trasmette uguale a se stesso […] non si ha autentico passaggio di un patrimonio di conoscenze da una generazione all’altra, ma solo conservazione di un lascito testamentario» (p. 35).

Da questo punto di vista, il lavoro dell’insegnante riflette e rilancia in maniera definitiva l’antinomia che ogni teoria ontologica deve ammettere, e che la fenomenologia è in grado di esasperare: l’assoluto è impossibile – ossia: esso è soltanto nella propria impossibilità. Eppure, il capitolo che apre L’inconscio e il trascendentale di Leghissa risulta decisivo per una ragione ulteriore: tematizzando, sul piano filosofico, la relazione tra maestro e allievo, esso indica chiaramente la necessità di una collaborazione, una «prossimità» (p. 39) quanto mai stretta, tra filosofia (fenomenologica) e psicoanalisi, suggerendo dunque che il paradosso onto-epistemologico che la filosofia accoglie, ma che non sempre è in grado di gestire, viene facilmente sopportato dalla prospettiva psicoanalitica (cfr. 42): in ultima analisi, «il discorso filosofico, se vuole essere anche veicolo di emancipazione, farà bene ad allearsi con la psicoanalisi» (p. 144).

Non a caso, il sodalizio tra psicoanalisi e filosofia, di cui il primo capitolo di L’inconscio e il trascendentale indica la convenienza, sostiene per intero le argomentazioni che seguono nei capitoli successivi: è la riflessione psicoanalitica a mostrare l’inconsistenza teoretica dell’uno, analizzandone la cifra relazionale (cap. 4); è ancora una volta essa a testimoniare la plausibilità di un discorso etico – il che, secondo Leghissa, risulta più facilmente dalle riflessioni psicoanalitiche di Sade che da quelle di S. Freud o J. Lacan (cfr. p. 99) – rivelando l’integrità etica dell’individuo nonostante la lacerazione del tessuto della soggettività cosciente dovuta a dinamiche pulsionali inconsce (cap. 3); è sempre la psicoanalisi a consentire di pensare appieno il desiderio e la pulsione che sostengono la relazione amorosa, e la sua traduzione narrativa (cap. 2); infine, è la prospettiva della psicoanalisi che riesce a risemantizzare il rapporto (conflittuale, antitetico, paradossale) tra allievo e maestro, riconoscendo in quest’ultimo un padre (freudianamente) destinatario di una pulsione di morte.

In questo senso, il testo mostra in maniera efficace i punti di contatto tra la filosofia e la psicoanalisi. Più precisamente, Leghissa mostra come la filosofia possa sussistere in quanto tale – vale a dire: a titolo trascendentale – soltanto in guisa fenomenologica, e come – parimenti – la fenomenologia attinga a un sostrato costitutivo della soggettività irriducibile alla riflessione filosofica, intercettando dunque la psicoanalisi nella considerazione di tutto ciò che, in senso lato, può essere definito inconscio. Ovviamente, restano da specificare le modalità mediante cui l’inconscio (della psicoanalisi) possa rientrare nell’orizzonte della fenomenologia, e se – e in che senso – esso possa restare inconscio una volta divenuto oggetto dell’indagine fenomenologica. Simili domande – rispetto alle quali, invero, cominciano a convergere talune delle ricerche fenomenologiche e psicanalitiche – sollevano interrogativi assai complessi, decisivi per il senso (trascendentale) della fenomenologia, nonché per lo statuto “filosofico”, e non meramente scientifico, della psicoanalisi. Su tali questioni ancora aperte, filosofi e psicoanalisti dovranno lavorare ancora a lungo: L’inconscio e il trascendentale di Leghissa, tuttavia, sarà per loro un imprescindibile punto di riferimento metodologico.