Estetica e filosofia delle arti

Gesti e ritmi del pensare: Benjamin e la scrittura dell’esilio

Recensioni

Frammentario, indisciplinato, anarchico. Tre aggettivi che illuminano il profilo di Benjamin nel nuovo libro di Gianluca Solla, edito per Feltrinelli (G. Solla, Walter Benjamin, Milano 2023). Il sipario si apre e noi sentiamo le prime note della melodia, che in qualche modo caratterizza tutto il testo: Benjamin è un autore in fuga. Con intuizione felice le circostanze dell’epilogo della sua vita vengono proiettate lungo tutta la sua esistenza: “la sua sarà una scrittura dell’esilio” (p. 11); la sua predilezione per Bachofen e Warburg dipende proprio dalla loro capacità di cercare “vie di fuga” che consentano di oltrepassare i confini disciplinari; il suo stile è una vera arte del “contrappunto filosofico” che non consolida l’esistente, ma piuttosto apre brecce nel sapere, mescolando le teorie. Luogo nevralgico di questa dinamica sono i Passages parigini, dal momento che la filosofia non è fatta di intenzionalità e di soggetti conoscenti, quanto piuttosto di incontri: “un incontro è quell’evento che fa di noi i complici del mondo che ci circonda”; incontri che non riguardano soltanto gli individui, ma bizzarri intrecci di persone e merci, che si dispongono in costellazioni. “Ogni singola cosa si apre all’incontro con altri frammenti” (p. 21): nessuna possibilità di sistematizzare, di redigere ordini completi delle cose, al massimo una ricapitolazione che si configura anch’essa nei termini di un passaggio.

La distruzione dell’aura, come si sa, coincide con la mercificazione dell’essente: in Benjamin ritroviamo il marchio di un materialismo originario, irriducibile all’intenzionalità, dove l’inservibile, il giocattolo rotto, è indice della vera potenza delle cose, della loro irriducibilità al funzionamento di “questo” mondo. Un atteggiamento che sfocia nel collezionismo, inteso come associazione di un oggetto all’altro, ma di nuovo senza pretese di completezza. Benjamin trova il fulcro della propria intuizione del mondo nell’allegoria: si montano pezzi tra loro anche incompatibili e si vede che cosa salta fuori. Da questo punto di vista davvero “gli oggetti non sono per il capitalismo, ma ‘gli capitano’. Sotto l’attenzione del suo sguardo gli oggetti si mostrano in uno stato di perenne fluttuazione” (p. 52). L’attitudine del collezionista, insiste Solla, non è un vezzo o un orpello: è piuttosto il paradigma attorno a cui si costruisce la possibilità di un’esperienza della prossimità del lontano – cosa che in passato era affidata alla sfera religiosa e alle istituzioni teologiche. Rispetto a questo alveare ronzante delle merci, con il loro cartellino del prezzo, pieno di sottigliezze metafisiche, la cultura in effetti non può che apparire come “resto reificato”, come resto morto, e proprio perciò – d’altra parte – riattivabile.

Frammentarietà, si diceva, e dunque impossibilità di una vera e propria theoria: nessuna astratta contemplazione del vero; “vedere è possibile unicamente dove si segua il ritmo dell’intermittenza delle cose” (p. 66). Il tempo gioca un ruolo essenziale: il flâneur, l’attesa, la camminata senza meta e senza fine, la dimensione labirintica di ogni città non sono figure che semplicemente vanno di moda; sono l’habitat del capitalismo, in cui si tratta letteralmente di sopravvivere.

Potremo forse sperare – in questa atmosfera dove emergono frammenti, allegorie e costellazioni – di comunicare integralmente la realtà che ci si para dinnanzi? È sottile in queste pagine il dialogo che Benjamin intreccia con il Karl Krauss autore de Gli ultimi giorni dell’umanità, e così pure con alcune pagine di Valéry e di Kafka. Pensare di poter “comprehendere” questo labirinto è mero delirio. Citiamo di nuovo l’autore: “l’imperscrutabilità del mondo e dei suoi processi produce un’attenzione ai fatti, più che all’analisi delle cause che li avrebbero generati” (p. 85). Qui l’orizzonte si allarga: attraversando questi temi Solla convoca anche il Lukács di Teoria del romanzo, Gershom Scholem, ma anche l’Educazione sentimentale di Flaubert: li trovate tutti insieme, nella stessa pagina – ma poco dopo compaiono anche i Quaderni di Malte, e Alfred Döblin.

La denuncia di una sostanziale povertà di teorie capaci di sorreggere l’esperienza non conduce a nuove proposte formali e formalizzatrici: l’esperienza è una soglia, “non decide né divide una dimensione dall’altra, ma invece ci implica ovvero ci trasporta in un intreccio vivente di dimensioni differenti” (p. 101). Appunto, si tratta di passare, come le merci attraversano lo spazio della visione del consumatore, e inevitabilmente lo frammentano nella pluralità inesprimibile del commercio, fatto di variazioni, di ripetizioni, d’impermanenze più che di “stati”. Unico appiglio è quella rammemorazione, l’irruzione del ricordo che illumina proprio perché irrompe in maniera del tutto non voluta, non intenzionale, indeducibile, e perciò capace di far balenare qualcosa del “vero”. “Qualcosa” del vero, poiché noi avveriamo in realtà che “l’eccesso di quegli eventi non si lascia tradurre in narrazione. Il loro è quel resto intraducibile alle parole che prende la via dell’immagine” (p. 115), immagine che non occorre legittimare entro una narrazione, ma che semplicemente attesta l’incrocio di una pluralità – non lineare e nemmeno componibile – di linee e di piani differenti.

Quasi a metà del libro, voi trovate una specie di oasi: la sensazione è quella di essere stati in fuga, di aver corso a perdifiato sino a quel momento, ma ecco, il capitolo intitolato “Il ritmo dei gesti. Kafka con Brecht”, dedicato a un tema a nostro avviso imprescindibile: “l’umanità ha perduto i propri gesti, avendo smarrito l’accesso al luogo da cui si generano – il proprio corpo” (p. 128). Di qui nasce tutto il discorso sull’importanza dei ritmi come modo dell’accadimento, come modo di accadere dell’evento: gesto che rompe, ma che insieme inaugura anche un novero di possibilità, per cui si può dire a buon diritto che “la verità vive solo nel ritmo”, senza che il ritmo possa dirsi in qualche modo vero – esattamente alla stessa maniera in cui – per citare Benjamin – “un’essenza spirituale si comunica nella lingua e non attraverso la lingua”. L’umanità che perde i propri gesti: Solla vi abbina subito Karl Krauss, mentre a me, leggendo queste pagine, era venuto in mente Vico.

Basta! I piaceri dell’oasi sono finiti: si torna a correre, attraverso l’occhio crudele della fotografia, dove già si palesa quell’intreccio inestricabile di arte e industria: d’altra parte, la fotografia stessa si configura come un gesto. Un gesto che non è di qualcuno: non appartiene a nessuno. “La sua è una reinvenzione dello sguardo” (p. 157): quali abissi dell’esperienza, prima inaccessibili ci spalanca la fotografia, dapprima con la sua segreta mobilità, che poi troverà nel cinema il suo stesso inveramento macchinico. Ma dimenticare in questo contesto l’impersonalità del filtro prodotto dall’apparato sullo sguardo del produttore: un automatismo senza coscienza, che assume una funzione quasi provvidenziale dal momento che l’istanza tecnica, l’esito imprevisto dell’ingranaggio salva il cinema da ogni pericolo di una sua intellettualizzazione. Forse proprio qui nella pellicola cinematografica si annida l’indistinzione tra tecnica e natura, tra macchia e terra e tutto il suo potenziale rivoluzionario.

Già Aristotele scriveva che non si pensa senza immagine. Ma in Benjamin – seguace in questo, come su molte altre questioni, della tradizione platonica – l’immagine è soprattutto l’occasione per trattare in realtà di un’eccedenza rispetto al dire. Vorremmo concentrare l’attenzione sulla difficoltà intrinseca a questo “pensare”: l’immagine è ciò che conduce il pensiero verso l’oltrepassamento della soglia linguistica; le immagini per così dire interrompono le lingue. “Le immagini sono quanto ci resta, quando la storia collassa. Solo l’eredità di una storia, che non si dà a noi se non nel loro lampeggiare nella notte” (p. 196). Chi volete che possa ricostruire una nozione di senso, un orizzonte sistematico a partire da questi tenui bagliori che s’intravedono nella notte? Eppure sono frammenti preziosi, anche se minimi. “Occorre che il pensiero trovi in una sua propria forma di montaggio il suo ritmo, cioè la sua specifica forma di verità” (p. 203).

Ma quale sia il nesso che Solla individua tra immagine, linguaggio e felicità – dove si instaura l’autentico rapporto tra bellezza e verità – non lo scriveremo qui di seguito: lasciamo piuttosto che l’interrogativo solleciti la curiosità dei futuri lettori.