Filosofia della cultura

L’anarca. Filosofia e politica in Max Stirner (Mimesis 2023)

Recensioni

Che dire di un uomo che “incide sul suo tempo e poi diventa impercettibile” (p. 9), interessato alla storia intesa non come antiquariato, bensì quale esperienza e invenzione intempestiva, a partire dai resti, di forme impensate? Se vi è qualcosa di chiaro in Stirner, è il rifiuto della finzione del mito dell’origine: non vi è la fabulazione dell’inizio, né l’illusione dell’unità. Nemmeno quella minimale costituita dall’io, allotropo empirico-trascendentale: vi è solo il continuo, topologia di trasformazioni che la conoscenza uccide e l’economia manipola.

L’assenza dell’io non esclude la presenza di mappe, direzioni, scarti, luoghi, funzionali a che la vita, priva di un centro e di un’origine, non si disperda. Stirner canta il frammento e la rovina, e dei suoi contemporanei, sottolineano gli autori, non condivide né sogni né lamenti. Come il padre Sergio di Tolstoj, sfugge all’ultima trappola di ogni asceta, quella della santità, che lo avrebbe reso un idolo, fantasma per altri fantasmi. L’unicità che predica Stirner è quella dell’indifferenza, di un’esistenza senza epica che rende irripetibili: per essere unici, si deve essere un nessuno. Non vi è miglior modo di sezionare il Geist che il tepore di una taverna, tra fumo e bicchieri, attaccando l’universalismo essenzialista paolino che sta alla base della svolta immanentista hegeliana: in Cristo come nella Vernunft tutti sono uno, ma a prezzo della propria singolarità.

In Stirner vi è il sentore che la miglior via per il successo sociale siano stupidità e ottusità (conformismo, diremmo con accenti contemporanei). Per il vivere, non vi è invece necessità di ragioni, adepti o giustificazioni: crisi persistente della contingenza, l’esistenza dell’unico rifiuta il presupposto e il prerequisito (Voraussetzung) dell’immutabilità dell’essenza umana, tanto caro alla scuola hegeliana. Stirner è la Fronte (Stirn), “la faccia [sfacciata] di chi non ha faccia” (p. 21), nominalista impudente che incarna e predica una maschera senza contenuto. L’incertezza della carne e dell’arbitrio indica la via nel rifiuto di ogni idolatria del fare che non lo riduca a esigenza di costruire mille maschere per sostenersi, senza credere in nessuna. Stirner insegna che nessun io può durare senza sfaldarsi, compresa quella narrazione epica che vuole l’immaginazione sovversiva compagna fedele dell’idea di emancipazione. L’uomo ha tanta libertà quanta ne vuole prendere, costituendo un movimento di autoposizione costitutivamente contingente: l’unico si pone – si crea – in ogni istante perché non è mai presupposto; privo di una causa e di un fine, è il frale fondamento di se stesso.

L’unico, rilevano gli autori, è esperienza del limite: le cose non sono mie, ma è mio il potere di disporne. La potenza volta alla proprietà è momento necessario della proprietà della potenza: la libertà, che è sempre e solo continua forza di liberazione del sé, si esteriorizza come capacità di appropriarsi del mondo. La gestione universale delle relazioni di proprietà non è che il volto immanente dell’economia del mistero divino: non promette più la salvezza in un aldilà, ma la conservazione dell’io in questo mondo. Stirner pensa invece gli oggetti non come beni, quanto piuttosto come utensili, estensioni del corpo. Essi sono sue proprietà sintantoché ne fa uso: la proprietà non è una cosa, ma l’estensione mobile del corpo a comporsi fluidamente con altri corpi. L’unico non dispone di cose, ma di usi: il suo possesso è cangiante, momentaneo, rideterminato nel tempo. A essere rifiutata è la riduzione della libertà alla sua nozione negativa: non si tratta di non essere schiavi, ma di essere proprietari; non è questione di abitare il mondo senza vincoli, ma di usare il mondo facendolo unico per ciascuno. L’unico non è un soggetto sostanziale che si determini sulla base delle proprietà, quanto piuttosto un processo sintetico di appropriazione, casuale e contingente, che dal nulla proviene e nel nulla dilegua.

La libertà coincide con la potenza di avere: l’unico è unico perché possiede se stesso possedendo il mondo, facendone uso, tanto che “la proprietà è una categoria logica dell’espansione dell’essere che sconfina nel nulla” (p. 152). La proprietà non è nulla di fisso, né di reale: funzione di costituzione e di espressione dell’unico come potenza sul mondo, come desiderio primitivo di appropriazione, consumazione violenta ed effimera. Tutto ciò il cui uso si cristallizza, sia una cosa o un interesse, rende schiavi: da proprietà dell’unico, si converte in proprietario. La proprietà è costitutivamente aliena all’accumulazione: chi mira alla proprietà come bottino, come deposito di cose da poter utilizzare, non è libero, poiché libertà è solo l’uso qui e ora del mondo, che dà gioia. Si possiede solo ciò che si dissipa e si consuma immediatamente. La libertà di esaurirsi, estrinsecandosi, fa sì che l’unico limite sia quello intrinseco alla finitudine del corpo: tutti gli altri limiti, che traducono la finitudine in impotenza, sono confini imposti alla libera espansione dell’unico. Questa è la ragione del rifiuto stirneriano di ogni forma di collettivismo a favore dell’opzione associazionista: il collettivo, così come il partito o lo Stato, non fanno che imporre all’individuo una forma di vita in comune, instillando in lui delle obbligazioni di solidarietà, amicizia e amore. La società è così riprodotta come un corpo che, gerarchicamente superiore, impone all’agire del singolo la sanzione di legittimazione o lo riduce a oggetto di punizione, determinandolo in definitiva come soggetto di un dovere.

“La solitudine ha un vantaggio importante rispetto agli altri stati d’animo: fa spazio all’imprevisto senza soccombere” (p. 32). Distante da ogni schiavitù rispetto a lettere maiuscole (Società, Uomo, Rivoluzione ecc.), Stirner non si preoccupa di smantellare o decostruire gli idoli caduti dei suoi avversari: non ha bisogno di criticare perché non anela a convincere. La critica gli appare null’altro che il rovescio di un’incapacità: essa è l’ultima teologia, in cui il pensare si eleva al di sopra di tutti i pensieri, decretando l’impossibilità di una loro fissazione. “L’arte del fallimento come luogo di pensiero” è il titolo emblematico di uno dei capitoli del volume: Stirner ha la capacità di un pensiero che “tocca Machiavelli senza passare per Hobbes, irrita Marx senza passare per Adam Smith, […esprimendo] una sottile capacità di fissare nomi e di sfuggirli continuamente” (pp. 58-59). Offrendo un’elaborazione dell’insensatezza, Stirner illumina non tanto un’arma per la rivoluzione, quanto piuttosto un’armatura per un tempo di dispersione, schiavo di corpi idolatrati o narcotizzati, adepto all’imperativo per cui si deve funzionare sempre. Stirner individua nell’efficienza l’ideologia di tutte le ideologie, l’antidoto migliore per indurre all’adattamento e alla normalizzazione: chi non riesce, chi fallisce – peggio, colui il quale le cui idee non riescono e falliscono – non ha luogo, non è nulla.

Come per Nietzsche, è esecrabile non il fallimento, bensì quel sentimento che si tramuta, per la propria impotenza, in risentimento, immobilità delle forze che incensa una morale del sacrificio e della tranquillità (sentirsi in colpa per la propria condizione e, al contempo, incolpare gli altri, esigendo da loro ciò che non si è grado di ottenere da sé). Per Stirner, il fallimento è la condizione prima per un pensare autonomo, forgiato nei crogiuoli della parodia, del sarcasmo e del delirio: a differenza di Marx, il cui umanitarismo intende la storia come un processo di redenzione ed espressione totale dell’essenza umana, il fallente Stirner rifiuta, in nome dell’arbitrarismo e dello sperimentalismo, la morale del progresso, il culto della moralità restituita. L’unico è il corpo singolo, la pura forza che non ha predicato, indicibile perché sceglie l’isolamento: inafferrabile, si isola non per essere solo, bensì per percepire lucidamente le forze che lo circondano ed esprimerle nudamente. Il rifiuto dell’io diviene il rifiuto del narcisismo: l’autore, autocoscienza sintetica del nulla (nulla di senso da cui trae ogni senso, flusso incessante di autopoiesi), dilegua nell’opera che lo esprime, rivelando l’io, entità nominale, come il luogo momentaneo dove serie eterogenee organizzano un senso. “L’insurrezione è un’ascesi che rifiuta tutte le consolazioni” (p. 74), che non rinnega neppure i dolori sublimi a vantaggio di una felicità mediocre. Il narcisista non ama se stesso, ma solo la propria rappresentazione, l’illusione che egli stesso o altri hanno determinato in un’immagine; l’unico, invece, sa che la vita non è che irripetibilità e transitorietà tra un nulla e un nulla, e calcola sempre senza mai moralizzare.

Figura della tensione, l’anarca si serve di tutte i travestimenti, ma non prende nulla sul serio; di tutto partecipa, ma non aderisce mai; tutto è affar suo, ma nulla è la sua causa. Cinico moderno, vive di una naturale sfiducia per i legami. Come il Venator protagonista di Eumeswil di Jünger, l’anarca vive il pathos della distanza affettiva, poiché, invece che fuggire la socialità, fa professione di asepsi, espungendo la società da se stesso: “L’unico forma un’idea-fatto, che non è né l’idea incarnata né il fatto gerarchizzato, ma un ampliamento dell’esperienza e una disponibilità a nuove possibilità” (p. 96). Tutto vuole conoscere per non essere influenzato da niente. Libertario totale, fa coincide un’elucubrazione solipsistica con un’immaginazione moltitudinaria: rinuncia a intaccare le relazioni di potere per sfuggirle concretamente. L’unico stirneriano è costitutivamente una relazione di circolazione e transito, un commercio (Verkehr): non nel senso, hegeliano, per cui la cosa non è altro che un fascio di rapporti che ne determinano il passare nella sostanza giuridica dello spirito oggettivo (l’individuo è persona nel momento in cui possiede e scambia all’interno di uno spazio contrattuale garantito dallo Stato), bensì nel senso di essere apertura e possibilità di appropriazione delle differenze nella forma dell’utilizzazione e del consumo. L’unico è unico, ribadiscono gli autori, perché si realizza come processo in cui il mondo (le cose, gli altri) sono sperimentati come una proprietà. Rifiutando l’adattamento normalizzante a favore della tensione, l’unico sostituisce la logica del potere con il potere di espressione, portando alle estreme conseguenze l’operazione hegeliana di desacralizzazione del mondo, che consente ora di pensare la natura come pura manipolabilità.

L’unico si delinea come un modo di espansione, di occupazione, di propagazione, di contagio. La sua esistenza implica la rinuncia programmatica a ogni logica strumentale che non sia situazionista. Legge la storia come un susseguirsi di esplosioni che compongono casualmente mondi: non un’evoluzione ordinatrice, ma una dinamica della catastrofe. La vita obbedisce alla logica vulcanica del naufragio e dello spreco, del sommovimento senza scopo e senza garanzie. Diviene allora trasparente, insistono gli autori, la ragione della critica feroce, spesso insultante, di cui Stirner è fatto oggetto nell’Ideologie: i padri del socialismo scientifico non potevano tollerare la rottura del modello antropologico sulla base del quale era costruito lo schema dialettico della lotta di classe. Marx ed Engels potevano forse perdonare a Stirner il suo anarchismo, non certo il suo nominalismo radicale e il rifiuto di ogni teleologia storica (che non è che il risvolto immanentistico delle antiche soteriologie): per una filosofia intrisa di determinismo, essenzialismo ed evoluzionismo, in cui la dialettica tra i modi di produzione e le forze produttive è la causa profonda e il fondamento ultimo dei rapporti sociali e delle morali che gli individui, puri epifenomeni, si limitano a esprimere storicamente, nulla poteva apparire più pernicioso di una professione di radicale scetticismo, sulla base del quale ogni descrizione lascia dietro di sé un irriducibile plusvalore antropologico.

Se vi è un trascendentale in Stirner, questo non è che il singolo corpo, la pelle che, per caso e in un dato momento, crea e occupa uno spazio di tempo, esprimendosi come potenza di appropriazione: un trascendentale paradossale, sintesi contraddittoria e fragilissima. Se in Hegel la singolarità rimane, come per Aristotele, ciò che la scienza non può conoscere, convertendosi con ciò nel più accidentale e inessenziale, Stirner, al pari degli altri hegeliani de gauche, ribadisce l’esigenza di portare la categoria del finito a coincidere con la carne dell’individuo: l’immanenza della ragione nella storia esalta la pura sensibilità con cui si apre la Phänomenologie, ma la riconduce alla carne viva, in sé inconoscibile, che funge da sostrato evanescente. In ogni istante, il trascendentale dice sempre e solo l’unico che io sono, esaurendo la sua universalità nel particolare che casualmente ciascuno incarna. Propriamente, non vi è che un unico e, dunque, un trascendentale: al contempo, l’estensione della sua portata non supera i confini labili e sfrangiati della corporeità individuale. Al pari dell’io, il trascendentale esprime l’esigenza di servirsi di flatus vocis: Stirner traduce l’essere in avere, il vivere in usare, in primo luogo in uso di sé. La chiusa, rivolta tanto all’Unico quanto ai due autori, non può che essere un interrogativo, che accomuna Stirner al captivus Schmitt: “Scrivere è l’ultima maschera possibile per chi si arrende al limbo del monologo interiore? La cura del ‘sé’, come ultimo inganno” (p. 33).