Filosofia della cultura

“Lo spazio tra le cose. Aristotele e la felicità del cambiamento” (Treccani 2023)

Recensioni

A tutti gli studiosi di filosofia accade ciclicamente che amici, parenti, conoscenti o perfetti sconosciuti chiedano il suggerimento di un testo introduttivo della materia o, peggio ancora, della specialità di cui si occupano. La richiesta mette in particolare imbarazzo gli studiosi delle parti più astratte della filosofia, per divulgare efficacemente le quali sono auspicabili non solo un (doloroso) compromesso tra esattezza e semplificazione dei concetti esposti, ma anche la loro applicazione ad esempi tratti dalla vita quotidiana o dalla cultura popolare. Come ben sappiamo, di rado queste qualità si trovano tutte insieme nello stesso libro. 

Annalisa Ambrosio, tuttavia, è stata in grado di scrivere un libricino che ben rispecchia queste caratteristiche, nientemeno che su Aristotele: quel filosofo ostico, decisamente poco appealing, perfino antipatico, da cui la coscienza comune cerca, da qualche secolo, di tenersi il più possibile alla larga. Ma ci riesce veramente? Niente affatto: ad avviso dell’autrice, ciascuno di noi riesce a fare quotidianamente esperienza della profondità del reale solo grazie all’utilizzo — ancorché non pienamente cosciente — dei concetti di potenza e atto. Essi sono talmente radicati nell’armamentario concettuale dell’Occidente da essere intuitivamente noti a tutti, anche a chi non ha alcuna conoscenza della metafisica aristotelica. La loro funzione essenziale è quella di spiegare il movimento, rendendo possibile l’apertura della temporalità del reale, la visione dello spazio tra le cose. Non più separate da un abisso, ma piene della continua e incessante potenzialità del movimento che le connette, le cose, concepite nella dimensione del movimento, ampliano lo spazio del reale sempre oltre sé stesso. 

Fin dalle prime pagine, Ambrosio restituisce un Aristotele lontanissimo dalla vulgata, presentandolo come l’autore che ha avuto l’essenziale merito di presentare all’Occidente, primo tra tutti, una filosofia ordinata ad affermare l’incessante realtà del movimento, dello sviluppo, del cambiamento, del progresso. Questo l’aspetto didattico del testo, che si rivolge innanzitutto ad un pubblico non specialistico e svolge efficacemente la sua funzione divulgativa specialmente nel primo capitolo — che in men che non si dica fa una carrellata dei concetti di sillogismo, categoria, genere, causa, sostrato, motore immobile, giusto mezzo —, poi in modo decrescente nel secondo e nel terzo capitolo, in cui progressivamente prevalgono gli elementi di originalità teorica dell’autrice. Non sarebbe perciò corretto dire che quello di Ambrosio sia, propriamente, un testo didattico o divulgativo. Esso non mostra, in effetti, né l’intento di spiegare analiticamente i testi di Aristotele, né quello di celebrare lo Stagirita come primo scopritore dei concetti che stanno a fondamento del pensiero occidentale. Fa, piuttosto, qualcosa di meno più raro: pensare il mondo di oggi con Aristotele, e Aristotele attraverso il mondo di oggi. Ambrosio ragiona con i concetti di Aristotele, si lascia ispirare da suggestioni aristoteliche e le sviluppa con originalità, ma senza seguire pedissequamente l’argomentazione aristotelica e collocandosi in uno spazio decisamente altro da quello del testo — in uno spazio, per così dire, tra altre cose, tra le cose dell’esperienza quotidiana. 

Ne risulta un peculiare neoaristotelismo, tanto immaginifico nell’esposizione quanto poco innocente nelle scelte interpretative. Mi concentrerò criticamente su queste ultime.

Il secondo capitolo inizia con una spiegazione romanzata, ma esatta, della critica di Aristotele a Parmenide, che pone più enfasi sulle simpatie dello Stagirita nei confronti dei primi fysikoi — di Eraclito, in particolare — che sulla mediazione platonica. Un rapido accenno alla sostanza è funzionale alla sua tematizzazione come soggetto del movimento. Un bel confronto con l’opera del fotografo Eadweard Muybridge esemplifica la tensione tra la continuità del movimento e la funzione critica della percezione, in cui la prima risulta sempre eccedente la riduzione alla seconda. L’idillio eracliteo è rotto dalla precisazione che Aristotele, comunque, resta un uomo greco dell’antichità che crede assolutamente alla finitezza del cosmo. Segue il più classico degli esempi: «è nato prima l’uovo o la gallina? Aristotele non ha dubbi: è nata prima la gallina. L’atto precede la potenza» (p. 50). Le frasi successive lasciano interdetti: «È una priorità che a noi interessa poco. Il suo ragionamento qui si fa meno interessante, di fatto è solo un bravo geometra che deve far quadrare i conti dell’edificio spettacolare che ha appena costruito» (p. 51). Al di là della retorica fuori dai denti, che l’autrice usa nel corso di tutto il libro a beneficio della leggerezza espositiva, viene da chiedersi quale motivazione teoretica giustifichi una tale predilezione per la potenza a discapito dell’atto. 

È facile rispondere alla domanda muovendo al terzo capitolo. L’autrice vi elabora riflessioni a partire da alcuni dei temi fondamentali discussi da Aristotele in Metafisica Theta, ed emerge con massima chiarezza il profondo influsso della lettura di Heidegger, del quale la piccola bibliografia finale riporta il noto corso del 1931. Ambrosio parla del possibile come «un simbolico segmento fatto di infiniti punti, un insieme di oggetti in movimento, bolle che si solidificano solo quando (e se) entrano nella regione ghiacciata del necessario» (p. 74). Non mancano giusti riferimenti alla distinzione aristotelica di potenze razionali e irrazionali, e a quella tra potere e possibilità. Ma le riflessioni originali dell’autrice, per sua stessa ammissione, sono quasi tutte centrate sulla concezione della potenza come possibilità. Se a ciò si aggiunge la concezione degli oggetti come «collezione di potenze in movimento» (p. 64), si configura, nel discorso di Ambrosio, il quadro di un’ontologia affine alla power ontology — corrente della metafisica analitica di matrice neoaristotelica —, sebbene presentata nel linguaggio della filosofia continentale. Non è possibile, in questa sede, discutere criticamente le implicazioni positive e negative di questa interpretazione, che ridimensiona notevolmente (fino quasi all’annullamento) il ruolo fondativo tradizionalmente riconosciuto alla sostanza e all’atto nella filosofia prima di Aristotele. 

Lo stesso capitolo, particolarmente nel paragrafo intitolato “C’è più realtà di così”, tratta Metafisica Theta come un vero e proprio manifesto del progressismo metafisico, icasticamente contrapposto al motto thatcheriano “there is no alternative” (ibidem). Non manca il tentativo di una concessione alla comunità trans. L’autrice attacca il conservatorismo, reo di preferire il mantenimento dell’ordine costituito al cambiamento, e criticando il binarismo di genere ribatte: «Tuttavia, tra la condizione A — gli uomini — e la condizione B — le donne — esiste la realtà delle persone transessuali che, come dice il nome, transitano da un sesso all’altro, perché il loro sesso biologico non corrisponde alla maniera in cui si sentono, al genere che sanno di possedere» (p. 65). Mi permetto di suggerire che l’argomento sarebbe risultato più efficace previo riconoscimento che il sesso e il gender si dicono in molti modi, e che per questo motivo la comunità delle persone che non si identificano nel genere assegnato alla nascita oggi preferisce l’appellativo di transgender a quello di transessuale, e la descrizione del trattamento medico come percorso di affermazione di genere più che di transizione di genere. L’identità di genere di una persona transgender — maschile, femminile o non binaria che sia — non è, infatti, in alcun modo vincolata alla decisione di intervenire sul proprio corpo, né al fatto di percepirsi come soggetto transitante da un genere A ad un genere B: il prefisso latino trans- significa “al di là”, e transgender viene a significare, semplicemente, “al di là del genere (assegnato alla nascita)”. Da un punto di vista metafisico, ciò significa che le modificazioni corporee prodotte dalla terapia non sono mutamenti sostanziali, ma qualitativi e quantitativi. Questa soluzione è pienamente compatibile con le categorie aristoteliche, sebbene Aristotele non avesse alcuna contezza dei concetti utilizzati dai gender studies contemporanei (pur essendo stato proprio lui, per ironia della sorte, a consegnare all’Occidente il concetto di “genere”).

Al netto delle criticità evidenziate, il testo si presenta come un tentativo originale, coraggioso e credibile di coniugare divulgazione e riflessione filosofica originale, in uno stile (sia letterario che argomentativo) lungi dall’accademico, ma interessante anche per gli specialisti, in quanto capace di riaccendere i più classici tra i concetti della storia della filosofia aprendo nuovi orizzonti di pensiero. La proposta teorica di Ambrosio potrebbe essere considerata erede di quel filone interpretativo che Ernst Bloch ha chiamato sinistra aristotelica, comprendente tutti quegli interpreti, da Avicenna fino a Marx, che in vari modi hanno soppresso l’elemento di passività della materia e del possibile presenti in Aristotele, in favore di una possibilità «colma di forma efficiente, in virtù della quale questa possibilità cresce e si organizza attivamente per le nuove realtà che in essa premono» (E. Bloch, Avicenna e la sinistra aristotelica (1963), a cura di N. Alessandrini, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 39).