Metafisica e ontologia

Vitam instituere

Recensioni
Vitam instituere. Genealogia dell'istituzione" di Esposito Roberto - Il  Libraio

Con Vitam instituere, Roberto Esposito prosegue una ricerca avviata con i volumi Pensiero instituente (Einaudi 2020) e Istituzione (Il Mulino 2021). Si tratta di un percorso che non si limita ad interrogarsi sul ruolo delle istituzioni attraverso il loro sviluppo storico e la loro dimensione genealogica, bensì propone anche un paradigma con cui poter ricostruire l’articolazione di questi fenomeni. In termini ontologici, quello che è in gioco fin dall’inizio di questa ricerca è la relazione che si configura tra l’essere e la politica o tra la natura e il diritto.

Ne il Pensiero instuente Esposito aveva anzitutto messo a confronto due paradigmi ontologico-politici tra loro contrapposti: il paradigma heideggeriano (impolitico) e quello deleuziano (iperpolitico); per poi presentare un’alternativa tramite il pensiero di Lefort: un paradigma instituente. Quest’ultimo paradigma si differenzia dai primi due perché – sebbene il discorso meriterebbe un lungo approfondimento – non pensa l’essere né come qualcosa di irriducibilmente distante dalla dimensione politica, né come strutturalmente sovrapposto a tale dimensione. Se nel primo paradigma lo spazio ontico-politico è costitutivamente contrapposto a quello dell’essere (che si configura come lo spazio che, pur permettendo l’apertura di ogni orizzonte ontico, è progressivamente incorporato dall’affermazione della tecnica in quello che viene definito come un “collasso metafisico irreversibile”), nel secondo paradigma abbiamo a che fare invece con una “simultaneità orizzontale” che sovrappone completamente la dimensione ontologica a quella ontica.

Ne deriva l’esigenza, in quest’ultimo paradigma, di pensare politicamente solo in termini affermativi data l’identificazione della trasformazione storica con l’affermazione di nuove forze in grado di aprire nuovi spazi nell’unico piano orizzontale dell’essere. L’impossibilità di pensare ogni plurivocità all’interno del campo dell’immanenza coincide così con la soppressione del ruolo negativo. La potenza instituente risulta come una forza affermativa che viene a coincidere con l’essere stesso, ciò che permette di «creare, in uno stato di creazione permanente, cose nuove che si sottraggono a ogni riconoscimento, a ogni fissazione»[1].

Pensare un’alternativa a questa duplice prospettiva significa tener ferma la concezione immanentista appena accennata e, allo stesso tempo, evidenziare la dimensione del conflitto come ciò che intercorre necessariamente ogni società. Non sovrapposizione assoluta tra essere e politica quindi, ma conflitto. Si tratta allora di pensare una plurivocità che divarichi le due dimensioni e renda possibile una distinzione interna al campo dell’immanenza: «Politica è ciò che unifica il campo sociale attraverso il conflitto, mettendo in scena la sua separazione fondamentale, altrimenti celata o frantumata in una serie di atomi irrelati» (p.136). La società assume la forma del Due: il negativo è reinserito all’interno della dimensione immanente perché strutturalmente manchevole, sempre spinta fuori di sé, necessitata a superare le proprie contraddizioni e i propri conflitti.

Tale percorso in Vitam instituere ha di conseguenza un obiettivo ancora più ambizioso: «Guardare alla storia della filosofia da un punto di vista esso stesso instituente» (p. VII). Continuare il lavoro teorico iniziato tramite la ridefinizione di un nuovo paradigma concettuale, questa volta utilizzandolo per rileggere anche altri autori – come Macchiavelli, Spinoza, Hegel – e per guardare alle prospettive che giungono fino al ‘900.

In questo senso, particolarmente elaborato, si può parlare di una genealogia filosofica di ampio respiro che va ben oltre la dimensione puramente teoretica per immergersi nella vitalità che scaturisce dal rapporto tra l’uomo e le istituzioni. Ma cosa significa “Vitam instituere”?

In tale lemma e nel suo significato si annida il complesso rapporto tra la vita e le istituzioni, o, ancora più aporeticamente, il rapporto tra la vita e il diritto stesso.

Già l’onnipresenza di tali intrecci ci dice qualcosa che può apparire come immediato e che eppure è già in sé il centro del problema: non c’è vita se non all’interno di istituzioni consolidate che, seguendo anche l’interpretazione di Legendre, costituisco una sorta di battesimo per l’essere umano. L’uomo si istituisce negando il proprio essere puramente biologico, si differenzia nella dimensione dell’istituzione (che è anzitutto una dimensione linguistica, quindi sociale). Si può così già mettere in evidenza quanto la dimensione del conflitto tra questi due termini, natura e diritto, sia caratterizzante e decisiva per un orizzonte culturale, lasciando perdere ora la questione legata alla priorità ontologica di uno dei due.

Si pensi alla differenza tra la cultura romana e quella cristiana: dove, nonostante il chiaro e reciproco condizionamento, se nella prima «la natura, tutt’altro che delimitare il raggio d’azione del diritto, ne costituisce uno strumento operativo» (p. 23); nella seconda, invece, i rapporti sono invertiti, è il diritto che viene istituzionalizzato dalla natura che è “data” dalla superiore dimensione divina (con tutte le conseguenze teologiche del caso, in quanto la dimensione terrena si trova così contesa tra due tendenze irredimibili).

Di nuovo riemerge il tema del conflitto così presente nel lettura di Esposito, ed è soprattutto con Macchiavelli che nella modernità questo tema viene posto in termini ancora più marcati ed espliciti: «Bisogna attendere tre passaggi concettuali che non è esagerato definire epocali: la disattivazione della trascendenza divina come fonte prima della dinamica sociale; un’articolazione tra natura umana e storia che immetta la prima nel movimento della seconda; e la definizione di una soggettività al contempo istituita e istituente». (p.31). Quest’autore è quindi esemplificativo perché rappresenta un momento di mediazione tra l’autonomia della politica rispetto alla natura, dove il problema è sempre il contrasto tra i due termini.

Con Spinoza, invece, ci spostiamo nuovamente verso un paradigma teorico-politico fortemente affermativo – per cui non si può dare una potenza che non sia in atto e, di conseguenza, si assiste ad una sovrapposizione tra ontologia e politica.  L’aspetto più presente nel pensatore olandese è infatti la consapevolezza della necessità instituente caratterizzante l’agire umano. Esistere significa esercitare una potenza instituente: la stessa abitudine costituisce la prima forza di questa potenza, in quanto è il modo specifico con cui si consolidano certe prassi che sono sempre necessariamente manifeste nella forma comunitaria.

Da qui la spinta all’unità che necessita di istituzioni sempre più forti che devono agire contro l’impulso, anch’esso costituivo, alla separazione. È lo stesso concetto di conatus che nella ricostruzione di Esposito esprime questa «pulsione auto-conservativa ed espansiva». (p. 65). Il quale non esiste se non, appunto, in una mediazione tra la storia e la natura. Ne consegue che le istituzioni sono un vero e proprio corpo vivente, che si razionalizza mediante la dimensione istituzionale. Se tale percorso si conclude con Hegel è proprio perché in quest’autore il rapporto tra la vita e le istituzioni si compenetra a tal punto che non è possibile distinguere nettamente le due dimensioni: la sfera naturale è intrecciata a quella spirituale, il lavoro dello spirito è proprio il progressivo distaccamento dalla prima sfera che non è mai rinvenibile nella sua dimensione immediata; essa si trova già da sempre mediata dal carattere comunitario della vita umana.

Tuttavia, la mediazione presuppone comunque la presenza dell’elemento naturale che non è affatto negato da Hegel. Ma oltre Spinoza e Macchiavelli il processo circolare hegeliano mette radicalmente l’accento sul carattere soggettivo e insieme oggettivo delle istituzioni, bilanciando così la centralità – e quindi il carattere astrattamente assolutista – dello Stato.

Ciò permette anche alla ricostruzione di Esposito di mitigare il cosiddetto istituzionalismo “forte” hegeliano. L’essere umano è costitutivamente immerso in questa doppia dimensione, soggettiva e oggettiva, in cui gli interessi personali sono compenetrati dal rapporto con le istituzioni che permettono alla “società civile” di avvalorare il suo ruolo, sebbene lo Stato sia il necessario punto di raccordo di questa stratificazione.

Complessivamente, questo percorso sembra mostrarci il carattere ineludibile delle istituzioni: l’impossibilità di sfuggire dalla dimensione “istituente” che, più radicalmente ancora, mostra l’intreccio inscindibile tra logos e bios.

Tale intreccio si configura nella lettura di Esposito attraverso una serie – potremmo dire, uscendo dal lessico utilizzato nelle opere di quest’autore – di “unità plurali” in cui i termini delle relazioni sono sempre alla ricerca di un equilibrio e in cui ogni volta c’è il rischio di una prevaricazione. Il paradigma istituente allora tiene ferma questa necessità: l’impossibilità di sottrarre uno dei due termini.

È proprio il conflitto a tenere viva questa tensione e, attraverso la prassi instituente, a tener saldo l’equilibrio imperfetto che si configura come una sorta di struttura formale del vivere comunitario.

Se si tratta di acquisire consapevolezza del carattere auto-instituente della politica, non celando il carattere transitorio di ogni società, nelle ultime pagine viene messo in luce come questo compito necessiti di un radicale ripensamento. Come non deprimere, nel contesto contemporaneo, il dinamismo della vita? Come incanalarlo all’interno della necessaria dimensione instituente e instituita?

A tutto questo il testo non vuole fornire una risposta, ma indica invece un modello che può guidare nuove analisi e nuove prospettive per indagare il problema. Tale paradigma, a nostro avviso, ha dei tratti fortemente realisti da un punto di vista politico dato che mostra l’impossibilità di sottrarsi alla dimensione auto-instituente e quindi di allontanarsi dalla sfera politica. Mettendo l’accento sul conflitto e sul dinamismo della struttura formale a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza, inoltre, mostra l’impossibilità di privilegiare uno dei due termini della relazione e la sterilità di ogni prospettiva unilaterale. Occorre mantenere tale tensione per rendere effettiva la prassi umana, elevando così il dinamismo della vita che – per non trasformarsi in puro scontro tra forze prive di ogni legame – necessita di una dimensione unitaria.

Tale incompiuta stabilizzazione «incorporandone la potenza, deve, per così dire, trattenere la vita per conservarla tale» (p. 118).


[1] G. Deleuze, L’isola deserta e altri scritti, Einaudi 2007, p. 204.