Metafisica e ontologia

Scienza intensiva e filosofia virtuale

Recensioni

È significativo notare come nella distanza che può separare la prima forma di emergenza di un testo dalla sua riproposizione successiva, anche se lontana nel tempo e nello spazio, tutta una serie di nuove intensità e di nuove forze siano avvertibili. È quello che accade con testi la cui rilevanza sembra eccedere i limiti storici nei quali sono stati costitutivamente concepiti; ed è certo la sensazione che si prova rileggendo un’opera come Scienza intensiva e filosofia virtuale del filosofo statunitense Manuel DeLanda, sfogliabile oggi nella sua prima edizione italiana, a cura (e nella limpidissima traduzione) di Andrea Colombo per Meltemi, ben vent’anni dopo la data della sua originaria pubblicazione in lingua inglese. Questa sensazione, se percepita per il libro di DeLanda, ha peraltro una pregnanza assai più singolare di quella che si potrebbe provare per un qualsiasi altro testo dedicato al pensiero specifico di un autore, destinato magari a impolverarsi tra le righe ormai stanche di una qualche bibliografia scientifica. Questo perché il testo di DeLanda possiede ancora oggi una forza e un valore inequivocabili se confrontato con l’attualità e la novità che già poteva avere nell’ormai lontano 2002, e perché ancora oggi è in grado di parlare e, cosa ancora più importante, di stimolare linee di ricerca, soprattutto per un pubblico di studiosi e lettori come quello italiano.

   Ora, come è possibile affermare questo di un testo il cui autore stesso dichiara avere una destinazione inevitabilmente specifica? Sì, perché DeLanda scrisse il suo Scienza intensiva con due chiarissimi obiettivi, uno storico-teoretico e uno, per così dire, epistemologico, i cui gradienti di tecnicità non possono non risultare evidenti: 1) scrisse un testo attorno a uno specifico autore, ovvero Gilles Deleuze, con lo scopo di osservare con occhi nuovi luoghi a dir poco fondamentali del suo pensiero, ovvero la sua ontologia; 2) lo scrisse, oltre che per i deleuzeani, per un pubblico specifico, ovvero i filosofi della scienza (se non addirittura gli scienziati stessi) interessati a interagire con le preziosissime fonti di pensiero offerte dall’ontologia deleuzeana. In entrambi i casi avveniva uno shock, parola amata da DeLanda: il filosofo teoretico si trovava di fronte a un’interpretazione insolitamente forte del pensiero di Deleuze, identificato da DeLanda come uno dei più geniali seguaci di una peculiare forma di realismo e di materialismo, e il filosofo della scienza (o lo scienziato) era indotto a camminare su quella difficile linea di confine che ancora oggi spesso separa la riflessione puramente teoretica dalle scienze tout court, la filosofia cosiddetta continentale da quella cosiddetta analitica. Ma come sottolinea molto chiaramente nella Prefazione al ‘paradossale’ testo di DeLanda il curatore e traduttore Andrea Colombo, da sempre attentissimo studioso di Deleuze, esso non funge banalmente “da ponte o da traduzione tra due mondi, ma vuole costituire un terreno aperto su cui brillano delle questioni che, per via della loro natura intrinsecamente teoretica, dovrebbero spingere a scavalcare ogni confine scolastico o disciplinare, in particolar modo quello esistente tra filosofia e scienza” (p. 10).

DeLanda può fare questo solo a prezzo di dispiegare una riflessione assai complessa e di mettere in atto una sorta – mi si passi il termine – di diplomazia concettuale (mai retorica, mai astuta e mai fine a se stessa, s’intende) che mostri non solo come il pensiero di Deleuze sia in grado di ordirsi spettacolarmente con i concetti fisico-matematici di cui si nutre, ma come le caricature che spesso sono state fatte attorno al peculiare modo di creare concetti di Deleuze e dei deleuzeani, tacciati di pensare nient’altro che per (vuote) metafore e analogie, non siano nient’altro che caricature di se stesse. Ne deriva una narrazione tanto densa quanto trasparente, in cui si leggono la matematica, la fisica e la biologia contemporanee tramite Deleuze e, allo stesso tempo, si legge Deleuze tramite quelle, con l’effetto non solo di rischiarare definitivamente la genealogia e la portata di alcuni dei concetti fondamentali dell’ontologia deleuzeana (dalla molteplicità alla singolarità, dalla differenza al virtuale), ma anche di riuscire a mostrare come, con le dovute differenze, quando a parlare sono una filosofia come quella di Deleuze o le più specialiste delle matematiche in realtà c’è una sola voce, quella del reale. Così – dice ancora Colombo – la filosofia riceve “un potere performativo portentoso di cui solitamente è priva, o viene privata”, così si spalancano “le porte di un interregno”, di “un laboratorio creativo in cui la filosofia non disdegna la matematica o la fisica, e viceversa, perché́ tutte hanno lo stesso scopo e fine: costruire ed esplorare il nostro reale. Fare dell’ontologia” (p. 11).

La questione della metaforicità del pensiero è qui cruciale. DeLanda è ossessionato dal ribadire nel testo come il piano metaforico debba distinguersi da un piano che lui stesso, in moltissime occasioni, definisce come “tecnico”. In ciò risulta perfetta l’adesione alle parole dello stesso Deleuze, il quale più volte ha ribadito, sin dagli anni Sessanta, come il suo sia un pensiero radicalmente ‘fuor di metafora’ e che così dovrebbe venir letto e studiato, asserzione che spesso non ha convinto né i filosofi né i caricaturisti – da Badiou, che proprio sul rapporto tra Deleuze e la matematica ha affermato, non senza una certa dose di violenza, come il gesto deleuzeano non consistesse in nient’altro che in un ‘prendere a prestito concetti’, un ‘trarre potenti metafore’, a Sokal e Bricmont, che parlano di un vero e proprio abuso da parte di filosofi come Deleuze del lessico della scienza. Per controbattere a queste posizioni, DeLanda avrebbe potuto invocare una sorta di preliminare ‘atto di fede’ filosofico, mostrando (faccenda epocale) come la dimensione metaforica e quella filosofico-conoscitiva non siano dimensioni tra di loro contraddittorie, ma una strada diversa è stata scelta, DeLanda fa un diverso tipo di giustizia al pensiero deleuzeano. Egli dimostra, senza compromessi, come il concetto ontologico e quello matematico siano vasi perfettamente comunicanti, e come il piano metaforico possa accadere assieme a un piano extra-metaforico che ne giustifichi, per così dire, la portata conoscitiva e ontologica. Così, ad esempio, il concetto di differenziazione progressiva, spiegabile tramite la risorsa metaforica della figura dell’uovo, può avere una traduzione immediata secondo DeLanda (e il Deleuze di DeLanda) analizzando matematicamente la teoria dei gruppi (cfr. p. 42); allo stesso modo, si può trasfigurare la questione, cruciale in Deleuze, della genesi dello spazio metrico dallo spazio non-metrico (e quindi anche quella dell’individuazione) da uno scenario metaforico a uno scenario propriamente ontologico studiando le proprietà fisiche intensive ed estensive (cfr. p. 57). Senza questa forma di apertura, senza che si legga con questo spirito il testo di DeLanda, esso risulterà nient’altro che come il suo esatto contrario: un testo di analisi concettuale, virtuosisticamente infarcito di teoreticismi e di matematicismi, la cui utilità è percepibile solo dallo storico dalla filosofia, dallo studioso deleuzeano o, al massimo, dal filosofo che si interessi ad eclettiche analogie. Niente, insomma, di più infruttuoso e di più distante dalle intenzioni dell’autore.

C’è poi la questione, rivolta prima di tutto – qui sì – allo studioso deleuzeano, dell’interpretazione che offre DeLanda della filosofia di Gilles Deleuze come una filosofia realista e materialista, il ‘pasticciaccio’ che dopo l’uscita di questo testo per il pubblico internazionale di lingua inglese ne fece inevitabilmente l’oggetto di un vivo dibattito. È indicativo come nelle pagine introduttive che lo stesso DeLanda ha redatto specificamente per questa prima edizione italiana, e che rappresentano una delle più curiose novità di questo volume, il filosofo e regista americano si preoccupi subito di riprendere le fila del discorso, come per ribadirne ancora una volta l’attualità. DeLanda interpretò quella deleuzeana come una filosofia contrassegnata da un radicale realismo (e materialismo) quando “il termine ‘realismo’ veniva ancora considerato una brutta parola” (p. 15), dato soprattutto il fatto che “la generazione di filosofi a cui Deleuze stesso apparteneva tendeva verso forme differenti di idealismo quando si trattava di ontologia” (pp. 15-16). La giustificazione della tesi di DeLanda, assimilabile solo in seguito a un confronto diretto col testo nella sua integralità, confronto di cui in questa sede non possiamo purtroppo rendere conto, è tanto semplice quanto vigorosa: quella di Deleuze è una filosofia che pone al centro il problema “di ogni filosofo che voglia dirsi realista”, ovvero quello della morfogenesi. Allora intervengono la matematica e le scienze: accanto alla storia della filosofia, per realizzare questa visione Deleuze ha sfruttato radicalmente “la conoscenza matematica e scientifica riguardante la morfogenesi che si è accumulato durante il ventesimo secolo” (p. 16). “Il Deleuze di DeLanda”, può affermare quindi Andrea Colombo, è in altre parole “un radicale morfologo, convinto dell’esistenza della realtà, della sua irriducibile indipendenza dalle soggettività che la percepiscono” (p. 12). Ma cosa distinguerebbe, allora, il peculiare realismo di Deleuze da un realismo, per così dire, classico? Per DeLanda il realismo di Deleuze non è un realismo che mette in campo le essenze o una qualsivoglia entità trascendente. Al contrario, al di là di ogni forma di essenzialismo, il realismo deleuzeano dà identità al reale ponendo al centro, fondamentalmente, i suoi processi dinamici immanenti. Quello di Deleuze, come afferma DeLanda nell’Introduzione al testo del 2002, è altrimenti detto un mondo fatto di “materia e di energia”, e la sua è una “ontologia dei processi” (p. 22), non delle essenze. Un’eco, quella della tesi delandiana, che ancora oggi è in grado di risuonare con una certa forza, soprattutto là dove essa attende ancora di essere recepita.

Almeno tre possibilità di direzione offre allora la lettura (o rilettura) di questo testo oggi, per il pubblico italiano. In primis, misurare la sua attualità e la sua fecondità alla luce dei vent’anni di studi deleuzeani (a livello nazionale e internazionale) che lo separano dalla sua prima pubblicazione, anche facendo i conti con una certa ‘lentezza’ che ha visto protagonista la ricerca italiana, per larga parte ignara dell’importanza di una figura come DeLanda, le cui opere, invece, sono altrove studiate e dibattute da tempo. Cogliere, poi, l’occasione di un simile testo per rinnovare (concettualmente e metodologicamente) la natura e la forma del dibattito che coinvolge in Italia, utilizzando espressioni oramai affaticate, il pensiero analitico e quello continentale, ad esempio su questioni attualissime come quella della filosofia del virtuale e dell’ampio ventaglio delle sue applicazioni e trasfigurazioni. Soppesare infine la potenzialità in termini di linee di ricerca che un testo come quello di DeLanda offre in termini disciplinari e interdisciplinari, mettendo in contatto le istanze ontologiche con quelle estetiche, etiche, antropologiche e così via, per assegnare a Deleuze (e non solo), mutuando le parole di Andrea Colombo, “un ruolo in cui, sinora, non era mai stato riconosciuto” (p. 13).