Estetica e filosofia delle arti

Tra paesaggio e ambiente: distinguere per salvare

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Sembra che non ci sia nulla di più attuale del paesaggio. La crisi climatica, le emergenze ambientali e la sostenibilità delle moderne pratiche produttive sono gli argomenti al centro del dibattito contemporaneo, ora chiamato a comprendere un unicum nel tempo della storia umana: la fine delle condizioni favorevoli alla vita sul pianeta e il conseguente rischio della sua estinzione. Di contro ad una sensibilità sempre più radicata e diffusa su questi temi, la riflessione teorica, almeno nella fattispecie che qui interessa – estetica della natura, estetica ambientale – si è ritrovata in qualche modo impreparata. Ripensare il territorio, l’ambiente e il paesaggio è un’urgenza non più procrastinabile. Ma occorre dotarsi degli strumenti concettuali adeguati allo scopo, e maturare una critica che distingua e giudichi la pensabilità e lo statuto degli oggetti in questione.

Il libro di Paolo D’Angelo, Il paesaggio. Teorie, storie, luoghi (Roma-Bari 2021) è l’ultimo di una lunga serie di lavori che l’autore ha dedicato al tema del paesaggio e più in generale all’estetica della natura. Qui si citano soltanto: Estetica della Natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale (Roma-Bari 2001), Estetica e paesaggio (Bologna 2009) e Filosofia del paesaggio (Macerata 2014). Riprendendo e ampliando alcune delle intuizioni dei testi citati, e corredando e affiancando agli aspetti più teorici, esempi tangibili e recenti di vita del e nel paesaggio – il disastro del terremoto e della Xylella (cfr. pp. 20-37 e 166-178), l’esperienza unica dell’Alta Murgia e del Soratte (cfr. pp. 155-165 e 179 192) – l’autore traccia un percorso che in tre momenti, distinti e dialoganti, attraversa e si confronta con molti degli equivoci e delle contraddizioni che il paesaggio porta con sé. Si procede, verrebbe da dire, quasi per ‘quadri’ o ‘episodi’, che si concentrano e approfondiscono alcuni dei tratti esemplari delle teorie del paesaggio, prima, delle storie che ne sono alla radice poi, e infine dei luoghi –a cui l’autore è anche affettivamente legato – in cui si raccontano e verificano sul campo le conseguenze di quanto è stato detto.

In continuità con i precedenti lavori, la trama e la direzione sottostanti al libro sembrano chiare. Da una parte, orientarsi e mappare le traiettorie principali della teoria del paesaggio, in un confronto serrato e interessato anche ai suoi risvolti più recenti: un’operazione tanto più necessaria, quanto più appare immensamente vasto e differenziato il dibattito attuale che si richiama ai valori dell’ecologia e dell’estetica ambientale – dalla Environmental Aesthetics americana inaugurata da Sadler e Carlson, fino alla ökologische Aesthetik tedesca di Böhme (cfr. pp. 42-50). Dall’altra, emerge l’impellenza di distinguere con nettezza il paesaggio da tutto ciò che paesaggio non è, proprio in risposta alla crescente sensibilità per i temi ambientali e per la tutela del paesaggio, che si è concretizzata in una serie di leggi – da ultima la Convenzione Europea del Paesaggio di Firenze del 2000 – a tutela dello stesso, e delle quali D’Angelo è sempre molto attento ad esaminarne la portata e il valore sintomatico per la diffusione di una certa idea di paesaggio a livello politico e sociale. Per un approfondimento sul tema, si rimanda a P. D’Angelo L’idea di paesaggio nel Codice dei Beni Culturali, in A.L Maccari (a cura di) Diritto e paesaggio, Milano 2009.

Non ci sarebbe servizio peggiore nel tentativo di ‘salvare il paesaggio’ – si potrebbe dire interpretando l’autore – che confonderlo e accostarlo semplificatamene all’ambiente. Esiste certamente una sinergia, una condivisione di campo e, in qualche modo, anche una comunione di intenti. Laddove, come per primo ha registrato Rosario Assunto, «un bel paesaggio è sempre anche ecologicamente sano» (p. 46). Nel suo capolavoro, Il paesaggio e l’estetica (Napoli 1973), Assunto è infatti il primo a sottolineare come «il punto di vista ecologico si interessa allo stesso paesaggio del quale ha cura il punto di vista estetico» (vol. I, p. 189), e tra i primi a denunciare le ferite e gli abusi a cui va incontro il territorio a causa della massiccia industrializzazione e urbanizzazione post bellica. Eppure, tra paesaggio ed ecologia si apre una frattura profonda. «Paesaggio ed ecologia sembrano collocarsi agli antipodi» (p. 40), scrive D’Angelo, mostrandone il cortocircuito. Proprio il tradimento del paesaggio in ambiente – e viceversa – sembra aver interrotto, da una parte, quella tensione, frutto della tangenza e non coincidenza dei campi di interesse, foriera di incontri tra prospettive e approcci diversi, in un rapporto di scambio e giovamento reciproco; e sembra aver dato luogo, dall’altra, alle peggiori storture e manipolazioni del suolo, proprio nell’intento di difendere l’ambiente. Emblematico, a tal proposito, il caso degli impianti destinati alla produzione di energie rinnovabili installati a svantaggio del territorio agricolo e delle alture: «Il paradosso è evidente: il vantaggio dell’energia ‘verde’ è di essere rinnovabile; ma per produrla si elimina un bene che è indubitabilmente non rinnovabile o rimpiazzabile, il terreno agricolo» (p. 54). Ma da dove deriva questo appiattimento del paesaggio sull’ambiente? Perché non è possibile sovrapporre perfettamente i due termini?

Che il concetto e l’esperienza del paesaggio abbiano un debito rispetto alla pittura di paesaggio è innegabile; anzi, «il carattere eminentemente visivo del paesaggio sembra iscritto nella stessa origine del termine» (p. 73). E se si guarda all’etimologia, si nota un fenomeno insolito: il termine «nasce nelle lingue romanze per indicare non il territorio reale, ma la rappresentazione pittorica del territorio» (p. 73). Solo in senso derivato, quindi,paesaggio significa una circoscrizione territoriale reale. E se anche nelle lingue germaniche la parola adottata per indicare una porzione di territorio preesiste, «il risultato, alla fine, è lo stesso: il paesaggio indica una porzione di natura considerata nel suo aspetto visivo e insieme la rappresentazione di questo aspetto in una veduta pittorica» (ibid.). Emerge con forza una tendenza che vede il paesaggio, da una parte, inevitabilmente orientato otticamente, tanto che paesaggio e veduta appaiono sinonimi, e, dall’altra, sembra impossibile sottrarlo al presupposto pittorico-rappresentativo che ne condiziona la concezione fin dall’origine, tanto che dire panorama e dire paesaggio spesso coincidono. Si è in qualche modo portati ad identificare addirittura il significato dello strumento visivo – il macchinario atto alla rappresentazione panottica – con il territorio stesso, con il contenuto della rappresentazione. (cfr. pp. 76-80).

È questo «regime scopico» (p. 38) e la conseguente messa in risalto della posizione dell’osservatore di contro alla natura, del soggetto agente rispetto ad un oggetto inerme,il bersaglio polemico di autori come W.J.T Michell e N. Mirzoeff, che rintracciano all’origine della posizione predatoria occidentale, volta allo sfruttamento e all’asservimento della natura, proprio questo suo tipico atteggiamento visuale, rappresentativo, prospettico (cfr. pp. 38-40). D’altronde, è stato proprio Simmel – padre della filosofia del paesaggio – a mostrare come nel concetto di paesaggio «l’essenziale è proprio questo processo di delimitazione, di demarcazione» (p. 142). L’unità intatta della natura è incorniciata a forza all’interno di rigidi confini; scomposta, privata della sua totalità – cui rimanda a compensazione un nostalgico sentimento oltre l’orizzonte – la natura è ricomposta dall’osservatore in un quadro determinato, studiata e dominata. Meglio allora, piuttosto, rinunciare allo sguardo paesaggistico, ad ogni visione estetizzante e soggettivistica, inservibile se si tratta di decidere del valore di un territorio. Il concetto di ambiente, da parte sua, «è un concetto fisico-biologico, descrivibile in termini oggettivi» (p. 44). Ma diventa complicato, a questo punto, recuperare il portato tipico della nozione di paesaggio: la bellezza naturale. Tutt’al più è relegata ad «argomento accessorio, che si affianca a quelli ben più sostanziali forniti dalla biologia e dall’ecologia». (p. 45).

Superare il paradigma ottico è possibile, e forse, come mostra D’Angelo, è fin troppo semplicistico ridurre la storia del paesaggio a questo schema (cfr. pp. 80-90). Tuttavia, resta tutta da ripensare un’estetica della natura che sappia riformulare e ricostruire il rapporto paesaggio-ambiente. Un buon punto di partenza, sembra suggerire l’autore, potrebbe essere la messa in chiaro dell’inessenzialità del concetto di bellezza per l’estetica, neutralizzando così un equivoco che allontana le due prospettive (cfr. pp. 58-72); in secondo luogo, ripensare la natura: portarsi oltre il paradigma antropocentrico, verso una prospettiva che senza nostalgia faccia memoria dell’esperienza di alcuni attori fondamentali del romanticismo tedesco – due capitoli sono dedicati a Goethe e a Carus e A. Humboldt (pp. 93-131) – dove l’idea di paesaggio attraversa una riflessione olistica della natura, senza astratte contrapposizioni.