Filosofia della cultura

Relazione, interruzione e analisi nell’ultimo libro di Silvia Vizzardelli

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Può il pensiero dare forma al reale? La domanda rischia di apparire tutt’altro che originale, se solo si pensa che la capacità formatrice delle strutture dell’intelletto è un dato pressoché acquisito dalla filosofia almeno a partire da Kant. Il quesito assume però una sfumatura nuova, una tonalità inascoltata, se si intende il “dare forma” nella sua accezione più materiale. Esso potrebbe allora venire così riformulato: può il pensiero modellare plasticamente il reale, istituire con la materia fuori di sè un nesso non direttamente causale ma, per così dire, un contatto a distanza, una non-relazione relazionante, una doppia scrittura simultanea? Il saggio di Silvia Vizzardelli, Teleplastia. Saggio sulla psiche interrotta, si muove entro gli orizzonti tematici inaugurati da questi quesiti. Riguadagnando il valore originariamente aptico del nous, la facoltà tattile della pura intuizione, l’autrice intende riconoscere nella capacità “teleplastica” del pensiero quella che ci fa immergere nell’«unità duale» (p. 28) della più recondita interiorità, luogo di fantasmi e origine di sintomi, ma anche spazio di incontro con l’altro sulla soglia liminale del fisico.

La riconfigurazione dei nessi speculativi proposta dal saggio di Vizzardelli passa anzitutto attraverso un profondo ripensamento della categoria di “magia”, di cui viene destituito il comune significato di “ampliamento della potenza”, ancora rintracciabile nel percorso, battuto dallo Schelling delle Conferenze di Erlangen, della assonanza lessicale dei termini tedeschi Mögen e Magie (il Mögen inteso come volere-potere in sé e la Magie come Vermögen, facoltà di volere-potere). La magia indica piuttosto un «non poter più potere» (p. 6), il limite ultimo della possibilità, la rinuncia all’orizzonte disgiuntivo-alternativo, in cui può soltanto estrinsecarsi la potenza aristotelicamente intesa, in favore della discontinuità paratattica di fenomeni paralleli, identici nell’assoluta diversità e separazione. Magica è, pertanto, l’immagine reale, viva, non-oggettuale. Il concetto a cui si fa riferimento a più riprese nel libro per riferirsi a tale “relazione a distanza” è quello di entanglement, nozione mutuata dall’orizzonte concettuale della meccanica quantistica e recentemente portata alla ribalta filosofica dalla scienziata e filosofa americana Karen Barad (ad esempio in Performatività della natura. Quanto e Queer, Ets 2017), indicante un’interazione tra particelle a distanze abissali o, più in generale, una actio in distans, un nesso non causale e non dialettico tra fenomeni paralleli. Una delle ipotesi interpretative di Vizzardelli è che la stessa psicoanalisi, tanto nella sua genesi storica, attraverso la vicinanza di Freud alla Society for Psychical Research, quanto nei principali capisaldi filosofici che la informano, debba essere letta alla luce dei presupposti fondamentali della teleplastia, intesa come tale capacità di formare a distanza attraverso legami non causali.

La trama argomentativa del libro si innesta dunque su una polarità di fondo. A tutto ciò che è dialettica, sintesi, innervazione, pensiero “endometabolico” e “pontificatore”, cioè perfettamente trasparente e bastevole a se stesso, instancabilmente vocato a costruire nessi, a ridurre a uno, si contrappone (polarmente, appunto, e non dialetticamente), il “tele”, l’al di là della soglia, la distanza, la risonanza come movimento capace di far risuonare corde perfettamente immobili, l’analisi (le immobili corde dell’analista lacaniano, silenzioso, fatte vibrare a distanza dal paziente-musico) (cfr. p. 47).

Un’ulteriore declinazione della medesima polarità ruota attorno al concetto di metafora. Nella rilettura del mito di Narciso fornita da McLuhan, l’immagine riflessa non è simbolo dell’autoinganno alienante di Narciso, ma semmai metafora, foriera di senso, dell’estensione esometabolica su cui il soggetto sa imporre la propria «portata» ma non la sua «presa» – al punto che, precisa Vizzardelli, occorre liberarsi dalla «pletora di luoghi comuni […] facenti capo all’idea che l’alienazione sia falsificazione, corruzione dell’umano, e puntare alla fertilità dell’ottundimento e del torpore» (pp. 85-86). Allo stesso modo in Lacan l’«oltre» del linguaggio può inscriversi solo nelle trame perfettamente coerenti e nelle articolazioni concettuali della scrittura “dialettica”, il reale affacciarsi solo nel quadro della realtà, il “taglio” della seduta da parte dell’analista aver luogo solo nel flusso di articolazioni significanti messe in opera dal paziente. A questo livello si innesta il parallelo con l’analogon della creazione poetica. L’oggetto poetico è infatti, per così dire, la scrittura dislocata e simultanea di una parola, il prodotto estatico di un taglio del continuum coscienziale (cfr. pp. 127-128). Qualcosa di simile accade nell’emersione del sintomo concepito in termini di rappresentazione, rigorosamente intesa come Repräsentation, vale a dire come delega politica che sostituisce i rappresentanti ai rappresentati, e non come Vorstellung, proiezione coscienziale perfettamente omogenea al processo che la genera. Lo scarto incolmabile tra il processo fantasmatico e il processo metaforico rende possibile il sintomo come rivendicazione del reale (genitivo soggettivo ed oggettivo) contro il simbolico anche se non prima di esso.

Lungo il tracciato del libro, attraversato da continue analogie tra alcuni dei concetti cardine della tradizione filosofica e i loro “sostituti” psicanalitici, l’autrice invita a ripensare l’io e la sua relazione con l’alterità. Lungi dal rappresentare un fondamento inconcusso, la certezza da cui ogni dimostrazione deve prendere avvio, l’io assume i contorni sfumati di ciò che solo nel non-rapporto con l’abissalmente distante può autenticamente sentirsi. È quanto accade nel desiderio o, in accordo con Blanchot, nel rapporto tra maestro e discepolo o, ancora, nel trauma, inteso come esperienza dell’«intollerabile» in cui il rapporto tra pensare e sentire verrebbe riconfigurato. Non si tratterebbe, cioè, di un’esperienza “pura”, ma della stessa destituzione del continuum coscienziale nell’irruzione dell’evento dell’assoluta distanza, del torpore alienante che dissocia e delocalizza l’io nella direzione di quella che ancora Blanchot chiamava la «sincerità delle cose». «La filosofia – nota Vizzardelli in conclusione – ha una parola per dire tutto questo: immediatezza» (p. 185). Immediato non è dunque ciò che si contrappone alla mediazione e alla relazione, ma ciò che dice, nella mediazione e nella relazione, l’interruzione dell’innervazione come ripetizione sintetica. Di nuovo viene in soccorso l’analisi per comprendere e provare a sciogliere l’aporia che attanaglia ogni procedimento analitico e per la quale tale processo necessita, per sorgere, dell’identità omogenea dei propri elementi e, per svilupparsi, della loro differenza. Questa identità-differenza è il silenzio che prende forma tra il paziente e l’analista, la domanda che non esige risposta, lo sguardo vuoto, intorpidito e assorto, in grado di far emergere, proprio in tale ottundimento, la struttura sistematica dell’inconscio.