Filosofia della cultura

Medioevo, specchio delle nostre paure

Recensioni

Un viaggio tra millenarismi, pestilenze e carestie, guidati da Chiara Frugoni

Avete presente quella “cultura del pericolo” che nasce e poi dilaga verso la metà del XIX secolo? A livello letterario trova il suo correlato nel genere poliziesco e nell’interesse giornalistico per il crimine. Da un paio di secoli si è diffusa una vera e propria “psicologia del pericolo” alimentata dal timore individuale nei confronti di minacce quotidiane, potremmo quasi dire, esagerando un po’, che si tratta di paure “piccolo borghesi”.

Ecco, scordatevi tutto questo: nel Medioevo si teme “in grande”. Una delle maggiori studiose di storia e di iconologia medioevale, Chiara Frugoni, ha scritto un nuovo libro dal titolo assai eloquente Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del mondo (il Mulino, 2020), dove ci racconta le angosce e le inquietudini che assillavano uomini e donne a quell’epoca.

            Ci troviamo calati nell’immaginario medioevale, forse non è azzardato – per tentare di rievocare in poche parole quel clima – rifarsi a quelle “corpolentissime fantasie” di cui secondo Vico erano dotati quegli esseri che letteralmente “fantasticarono la terra” agli albori della civiltà: così agli occhi di un vescovo di Verdun le invasioni degli Ungari venivano trasfigurate nell’arrivo di Gog e Magog, i terribili annunciatori dell’Anticristo nell’Apocalisse di Giovanni; nei venti che portavano le rosse sabbie africane si coglieva immediatamente una pioggia di sangue, altro emblema della fine dei tempi; immaginarsi che cosa dev’essere stata all’epoca l’apparizione della cometa di Halley – nell’989 – considerata da subito una nuova stella mandata da Dio; per non parlare delle cronache di terremoti e altri segni mirabili avvenuti nell’anno millesimo della Natività del Signore. Certo, poi ci sono le “smentite” e le rassicurazioni provenienti da Gregorio Magno, da Adso di Montier-en-Der, ma erano tutte del genere “c’è ancora tempo”, il che non negava anzi se possibile rafforzava l’idea che Dio fosse in continuo rapporto col mondo e che ogni evento quaggiù dovesse comunque essere interpretato come segno del Cielo.

            Leviatani che divorano pesci come il diavolo divora moltitudini di anime, attese millenaristiche, racconti relativi alla fine del mondo nascono sullo stesso terreno da cui sorgono anche vere e proprie pietre miliari della tradizione occidentale, come il Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore. Tutte testimonianze di una grande familiarità, di una grande prossimità con quelle che noi oggi chiameremmo “le cose ultime”: in quest’ottica si deve intendere anche quell’atteggiamento complessivo che per brevità possiamo compendiare nella celebre litania “a subitanea et improvisa morte libera nos, Domine”. «Era molto difficile per i fedeli che osservavano la rappresentazione del Giudizio universale – spiega Frugoni – identificarsi nella perfezione dei santi e dei martiri, e sperare di raggiungere le file degli eletti in una gioia senza fine»: di qui la paura dell’Inferno, l’importanza di liberarsi dai peccati tramite pentimento, confessione e penitenza. Sullo spalancarsi del tempo impensabile dell’eterno dopo la morte il Medioevo intesse il proprio immaginario: i castighi infernali vengono rammentati ovunque, grandiosi Giudizi universali possono essere rimirati ancora oggi sulla facciata esterna delle cattedrali, oppure contemplati sotto forma di affresco all’interno sulla controfacciata. La penitenza stessa si afferma come punto nevralgico, ma – al pari di ogni altra forma di cultura – non permane in modo statico, bensì finisce per evolversi attraverso una serie di variazioni: dalla confessione pubblica si passa a una forma “tariffata”, una sorta di economia della salvezza che prevedeva una rigida equivalenza tra le colpe confessate e le penitenze che venivano imposte. Il quadro così composito di questa Weltanschauung viene dipinto dall’autrice attingendo ai materiali più vari: dai testi alle statue reliquiarie, dai cartigli ai bassorilievi presenti nei timpani, dove troviamo illustrati i diavoli al lavoro, angeli col turibolo, la casa di Abramo, e ancora il re dannato, il vescovo accompagnato dai suoi perversi nipoti, e poi l’eretico, il falsario, il giullare, l’ingresso dell’Inferno e così via.

            Ma non si teme solo la fine del mondo. Si teme la fame, in un’epoca in cui le tecniche e le attrezzature agricole rimasero sempre piuttosto modeste. La gravissima carestia, avvenuta attorno al 1033 e raccontata da Rodolfo il Glabro nel testo omonimo ci ricorda tempi nei quali divenne abituale mangiare carne umana per sfamarsi e l’argilla veniva impastata con quel poco di farina ancora disponibile, mentre i cadaveri insepolti venivano divorati dai lupi. Episodi letti sempre alla luce del castigo del Cielo per i peccati. Non stupisce la nascita dei cosiddetti “miti di compensazione” come il Paese di Cuccagna, presente di fatto nella terza novella dell’ottava giornata del Decameron e dipinto poi da Brueghel qualche secolo dopo. Il cibo, inteso come miraggio, è di nuovo fonte di un ricco apparato simbolico, quasi un “armamentario di carattere culturale” adoperato per gestire la costante situazione di miseria e di povertà che opprimeva la maggior parte della popolazione, per cercare di arginare – nei limiti del possibile – gli esiti di quella catena di fame violenza e disperazione che spesso minacciava d’innescarsi nel corso di quei secoli.

             C’è poi la paura del diverso, dello straniero, degli ebrei e dei musulmani – «stranieri particolari, “totali” – dice Frugoni – con i quali era impossibile trovare un punto di incontro». Anche qui trova spazio un corpus di narrazioni, leggende, simboli e personificazioni estremamente complesso e in sé dinamico: pensiamo alla contrapposizione tra le figure allegoriche della Synagoga e dell’Ecclesia, alla frattura costituita dalle crociate, ma anche a quelle dissonanze costituite per esempio dall’incontro di Francesco d’Assisi col sultano Malik-al-Kamil.        

Da ultimo, la paura delle malattie, della lebbra, della morte per peste. Ed ecco che, improvvisamente – ed è questo l’esordio nel prologo all’interno del libro – capiamo che quel passato è terribilmente presente. Ci accorgiamo, una volta di più, che il Medioevo non è un evo lontano, non è un certo giro di secoli oramai alle nostre spalle, ma è piuttosto una vera e propria invenzione della Neuzeit, tramite cui l’uomo moderno si è come dotato di uno specchio nel quale vedersi riflesso per conoscersi meglio.