Metafisica e ontologia

G. Calogero, “Il pensiero presocratico” (Mimesis, 2021)

Recensioni

Il Novecento filosofico è ricchissimo di indagini che, facendo rivivere antiche parole, scandagliandone le sfumature semantiche, ricostruendone e decostruendone il senso originario, evitano che esse si adagino nel quieto e perfettamente ‘logico’ loro significato. L’antologia intitolata Il pensiero presocratico, recentemente apparsa nel catalogo di Mimesis Edizioni, rappresenta un perfetto esempio di un simile sforzo storico e filosofico. Il volume raccoglie contributi di Guido Calogero sui presocratici che, in buona parte e per motivi più o meno estrinseci all’evoluzione e allo sviluppo dell’opera del filosofo, non hanno trovato spazio nei testi dell’autore che con più naturalezza avrebbero potuto accoglierli, gli Studi sull’eleatismo e la Storia della logica antica. Come ricorda Brancacci – curatore del volume e allievo di Calogero – nella ricca ed esaustiva introduzione al volume, un primo elemento di interesse relativo a questi scritti è costituito dal fatto che essi aiutano a comprendere il legame indissolubile che, nella precoce e geniale produzione calogeriana, lega i Fondamenti della logica aristotelica del 1927 ai successivi studi concernenti il pensiero greco. Tale legame è anzitutto ravvisabile nell’individuazione, all’interno del pensiero antico, delle radici implicite ed esplicite di un’‘altra’ logica, che affianca e fonda la matura e compiuta logica dianoetica del giudizio. Del resto, fin dal primo dei testi antologizzati, vale a dire l’Introduzione alla storia della logica antica, che funge da premessa metodologica fondamentale al fine di situare gli studi in questione, l’autore mette in chiaro, con l’asciuttezza e la chiarezza che caratterizzano il suo dettato, che «alla base dell’esplicita logica dianoetica c’è, implicita ed esplicita, tutta una logica noetica, che sull’unità dell’appercezione fonda ogni successiva dualità dei giudizi e dei sillogismi, giustificando coi suoi supremi principi quegli stessi assiomi a cui più direttamente attingono la loro validità le forme del pensiero dianoetico» (p. 41). Valutazione, questa, che, sebbene riferita alla forma più compiuta che la logica antica seppe darsi, quella aristotelica, ben può vedere ampliato il proprio riferimento alla quasi interezza del pensiero greco, se è vero che i motivi del tautòn e dello heteron lo animano ed inquietano almeno a partire da Parmenide. Buona parte del saggio introduttivo è inoltre volta a scardinare il vizio esegetico (e mostrare che si tratti di ‘vizio’ è proprio l’intento del curatore) che ha portato a ravvisare, se non una dipendenza, quanto meno uno strettissimo legame tra la riflessione calogeriana e l’indagine condotta da Cassirer tanto intorno alla logica arcaica quanto intorno al nesso tra mito e logo nel contesto della riflessione sulle ‘forme simboliche’. Particolare rilievo assume, in questo contesto, il concetto calogeriano di «coalescenza» di pensiero e realtà da un lato e, dall’altro, di pensiero e parola, che, rileva Brancacci, ben poco ha a che vedere con l’identità di parola e cosa cui Cassirer si appella per avvalorare la tesi di una radice “magica” del linguaggio arcaico. Gli orizzonti di senso dischiusi dai cosiddetti presocratici non sono né semplici “cosmologie” di impronta fisico-naturalistica né elaborazioni logico-formali già perfettamente costituite in una struttura dialettica. Essi rappresentano, piuttosto, delle «logiche ontologizzate».

Nell’approfondimento di tale orizzonte storico, Calogero si trova anzitutto a dover fare i conti con la pesante eredità esegetica del neoidealismo italiano, che nel pensiero antico vedeva poco più che un momento astratto dello sviluppo dello spirito (o, meglio, vi vedeva la costituzione storica di quel logo astratto che solo alla luce della concretezza può apparire nella sua verità, quindi nella sua astrattezza). Il significato generale degli studi calogeriani può dunque essere individuato nel tentativo di seguire il costituirsi storico di quel ‘principio di determinazione’ che, stando alla celebre quanto discussa tesi sostenuta nei citati Fondamenti, funge da base e fondamento dello stesso principio logico di non contraddizione o, come Calogero preferisce dire, ‘di contraddizione’, stante che il costituirsi di tale principio come archè tes antiphàseos consente di coglierne le declinazioni tanto nell’apofasi quanto nella catafasi e così di dominare il campo dell’affermazione quanto quello della negazione. Il contesto speculativo entro cui si muovono gli stessi studi presentati nel volume in questione è quindi quello relativo alla problematica del rapporto tra nousdiànoia e logos mediante un’indagine delle contaminazioni di campo tra una verità-realtà semplicemente contemplata ed una verità-realtà detta, parlata. 

Oltre ad alcune importanti recensioni – come la prima parte di quella da Calogero dedicata al volume di Ernst Hoffmann Die Sprache und die archaische Logik – il volume raccoglie le voci su singoli presocratici o su ‘scuole’ di pensiero, scritte da Calogero per la Enciclopedia italiana diretta da Gentile, segnatamente le voci dedicate a Senofane, Eraclito, all’Eleatismo, a Parmenide, Zenone, Melisso, Democrito, alla Sofistica, a Protagora e a Gorgia. 

Tra gli altri testi raccolti, originariamente pubblicati da Calogero su prestigiose riviste quali «Gnomon» o il «Giornale critico della filosofia italiana», meritano una menzione a sé almeno quello dedicato a Senofane, Eschilo e l’onnipotenza di Dio, inizialmente posto in appendice alla seconda edizione degli Studi sull’eleatismo e qui opportunamente riproposto, e quello dedicato a Plotino, Parmenide e il Parmenide.

Nel primo, Calogero amplia e sviluppa l’originale lettura di Senofane che aveva già avuto modo di presentare, come precisato da lui stesso all’inizio dell’articolo in questione, «in un articolo di enciclopedia non specializzata». La filosofia senofanea ricavabile dai frammenti e dai riferimenti dossografici deve essere necessariamente letta, a parere di Calogero, nel contesto di una polemica antiomerica relativa al modo di concepire la divinità. Tale determinazione esegetica si rivela prioritaria perfino rispetto alla stessa paternità tradizionalmente attribuita a Senofane nei confronti dell’eleatismo. L’immobilità di Dio, affermata da Senofane nel fr. 26, «è dimostrata non mercé quell’antitesi dell’essere al non-essere che, creata da Parmenide, conduce poi attraverso Melisso alla negazione propriamente eleatica del divenire e del moto, ma solo con l’empirico rilievo dell’incongruenza della concezione di una divinità come tale che abbia bisogno di andare “or qua or là” […] al pari di un comune mortale» (p. 139). E anche là dove tale carattere ‘antiomerico’ della teologia senofanea risulta di più difficile accertamento, Calogero, con una scrupolosità d’indagine storica che, affiancata alla profondità speculativa, rappresenta certamente uno dei tratti caratteristici della riflessione del filosofo romano, dipana complessi grovigli filologici. È il caso della discussione intorno al verbo greco kradàinei che compare nel senofaneo fr. 25 e che Calogero, onde difendere la tesi della profonda differenza che intercorre tra la divinità omerica – che ancora patisce una distanza tra il proposito pensato, il noesai, e l’azione compiuta, kresai – e l’autentico concetto della divinità di cui si fa propugnatore Senofane, secondo cui il proposito è già azione e l’azione è l’immediato attualizzarsi del proposito – riconduce ad un più arcaico kraainei, indicante appunto «il compiere, il recare in atto, il far sì che un desiderio diventi realtà, che un sogno si avveri, che una parola o una promessa non cada nel vuoto ma sia realizzata o confermata dalla cosa» (p. 145). Sulla base di tale accertamento filologico, Calogero perviene all’accostamento della divinità senofanea a quella eschilea, per come quest’ultima viene presentata in particolare dal coro delle Supplici (vv. 91-103 e vv. 595-599). 

L’altro testo cui si è fatto cenno, Plotino, Parmenide e il Parmenide, chiude la raccolta e venne originariamente concepito, come ricorda Brancacci, quale relazione al convegno del 1974 su Plotino e il Neoplatonismo in Oriente e in Occidente. L’ordine che compare nel titolo della relazione ben ne riassume e ripercorre l’andamento. Calogero prende infatti le mosse dalla citazione plotiniana del celebre emistichio parmenideo nel quale si afferma che «lo stesso sono il pensare e l’essere». L’ipotesi interpretativa di Calogero volge ad una stigmatizzazione di questo verso che, preso così com’è, ad altro non potrebbe ricondurre che alla visione stereotipata dell’eleate veicolata dalle Enneadi di Plotino e che facilmente presta il fianco all’interpretazione neoidealistica per la quale, nella logica arcaica, il pensiero si ‘depotenzierebbe’ consegnandosi all’immobile identità e fissità dell’essere. Lo studioso romano propone dunque un’integrazione del fr. B 3 di Parmenide considerandolo, da un lato, nella sua connessione con l’altrettanto celebre fr. 2, in cui vengono presentate dalla dea le due vie, quella “che è” e quella “che non è” e, d’altro lato, proponendo un’integrazione dello stesso fr. 3 tale che esso suoni «la stessa cosa infatti è pensare e <dire> che è <quel che pensi>» (p. 201), opponendo così alla ‘mistica’ identità di pensiero ed essere affermata dalla maggior parte degli interpreti, la ben più logicamente articolata coalescenza tra il pensare che pensa l’ente e lo stesso ‘è’ dell’ente, nella direzione di uno schiacciamento del valore noetico sul valore semantico. L’interpretazione del Parmenide di Platone che Calogero, in chiusura di testo, abbozza soltanto, rimandando ai suoi Studi sull’eleatismo, si mostra quanto mai suggestiva. Il dialogo si rivelerebbe una geniale operazione ironica (senza con questo implicare che si tratti di una mera gymnasia dialettica) volta a mostrare come gli stessi principi della filosofia eleatica, se radicalizzati e condotti alle loro estreme conseguenze, finiscano inevitabilmente per roteare su se stessi fino al punto di negarsi. «Si ha così la più colossale autodistruzione antinomica di concetti che sia stata registrata nella storia del pensiero» (p. 209). L’ipostatizzazione dell’Uno e dell’‘è’ parmenidei conduce infatti alle ben note aporie indicate da Platone, al moltiplicarsi dell’Uno e al non-essere dell’‘è’. Il mancato riconoscimento di tale carattere ‘ironico’ del Parmenide costituirebbe dunque l’altro lato del ‘fraintendimento’ neoplatonico dell’eleatismo.

Il volume in questione, oltre a rappresentare un’utile introduzione ai più complessi e strutturati testi calogeriani, costituisce un insieme di documenti di indubbio interesse storiografico e speculativo, suggerendo, mediante il continuo sconfinamento da un ‘registro disciplinare’ all’altro, la presenza, all’interno del pensiero italiano del Novecento, di un filone che, proprio in quanto non rinserratile nelle strette maglie di una ‘scuola’, rivela una profondità teoretica e un autentico respiro europeo ancora tutti da rivelare.