Estetica e filosofia delle arti

Immagini di senso e figure concettuali

Recensioni

Bosch e Bruegel letti da Maurizio Ghelardi

Un viaggio in cinque tappe, sulla rotta follia-salvezza, per così dire alle soglie dell’età moderna, ma senza che quest’ultima sia effettivamente cominciata. Il nostro nocchiere è Maurizio Ghelardi, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, a cui dobbiamo la traduzione e la cura delle opere di Warburg per Aragno e per Einaudi, così come la cura dell’edizione critica delle opere di Jacob Burckhardt. Recentemente, inoltre, ha pubblicato Le stanchezze della modernità. Una biografia intellettuale di Jacob Burckhardt (2016).

Accompagnandoci tra le opere di Bosch e Bruegel, Ghelardi conduce un’indagine dal titolo Follia e salvezza (il Mulino, 2020) e l’indagine verte su un problema preciso, anzi, per adoperare le sue parole, «l’evento fondamentale che caratterizza la pittura tra la fine del XV e la seconda metà del XVI secolo, ossia la conquista del mondo come immagine di senso e come funzione». Finalmente, si potrebbe dire, un’interazione tra senso e immagine, ossia una concezione unitaria dello spazio e della narrazione: sennonché questa unità produce, forse, più problemi di quanti non ne risolva. A risultarne incrinata, per esempio, è quell’indiscussa gerarchia tra il sacro e il profano: il soggetto (e l’oggetto) cominciavano così a emanciparsi dalla trascendenza, ma che cosa accade ora che la morte non sarà più strettamente dipendente dal giudizio divino? E l’incrinatura si può rintracciare anche a livello iconografico: le figure rappresentate nei dipinti non trovano il proprio prototipo in un ambito letterario, o in una sfera spirituale dalla quale attingere senso e rispetto alla quale proporsi come imitazione, o magari come (ennesima) ripresa e rivisitazione di temi già assicurati dalla tradizione – niente di tutto questo: si tratta oramai di figure concettuali, autonome.

Avete presente quella meravigliosa descrizione che si trova nell’Estetica hegeliana a proposito della pittura tedesca e fiamminga? Non più quadri a soggetto religioso, bensì l’immedesimazione totale nel mondano e nel quotidiano: «la cornice del quadro si trasforma nella porta del mondo in cui l’uomo fa il suo ingresso», cosicché «il comico distrugge ciò che vi è di malvagio nella situazione». Ecco, sembra proprio che Ghelardi abbia voluto sondare quest’intuizione del grande Giorgio Guglielmo Federico. Però non aspettatevi – è l’autore stesso a metterci in guardia – un saggio analitico, una ricognizione storico critica attraverso cui si delinei “sistematicamente” questa delicatissima fase di transizione dal Medioevo al Rinascimento. Piuttosto, si tratta, come dicevamo, di cinque tappe, in cui questo crinale, questa soglia tra due concezioni del mondo finisce per emergere – quasi sintomaticamente – attraverso la riflessione su alcuni dipinti: questo trapasso non è stato elaborato soltanto sul piano filosofico-concettuale, è stato letteralmente “pensato per immagini”.

A questo livello, allora, la “Nave dei folli” è carica di un’intera antropologia: testimonia un’umanità incapace di signoreggiare il mondo, la sua limitatezza, la tendenza alla perdizione. In tal senso – bellissima questa espressione di Ghelardi – «l’opera di Bosch metabolizza un cosmo figurativo che non si sottrae al suo tempo», a un mondo fatto di peccatori e folli, di santi tentati e tormentati, dove la fragilità umana si rivelava entro una selva che pullulava di demoni, presagi, prodigi, apparizioni, miracoli divini, ma anche infernali. Volete forse decifrarne compiutamente i simbolismi? Volete rintracciare l’esatta corrispondenza – per dir così: uno a uno – tra figure e sette religiose, o tendenze ereticali? Auguri! Sarebbe una fatica immane, e in parte tale esercizio è stato svolto dai critici, ma in sé sostanzialmente destinata a risultare improba.

Prendiamo adesso il cosiddetto Trittico del viandante. Questo viandante, più che una tavola, sembra quasi uno specchio, in cui il fruitore può rimirare se stesso, mentre incespica, con una gamba ferita, posto di fronte a un bivio, e si volge indietro, a guardare il cammino percorso: immagine intensa del cammino, del trascorrere della vita, della sua caducità – in breve, del dramma umano. “Tipico dell’umanesimo nordico” si potrebbe pensare. Ma perché? Chiede Ghelardi: nel “nostro” Leon Battista Alberti, mutatis mutandis, è poi tanto diverso? È l’uomo che deve decidere, mentre quella salvezza che viene dalla grazia divina ora è celata, le sue intenzioni nessuno può conoscerle, e ogni superbo tentativo di “comprensione” si rivelerebbe condannato, da ultimo, a riconoscere la propria cecità.

L’allegoria della Nave dei folli, dipinta da Bosch tra il 1500 e il 1510, in realtà dipende dal poema in versi Das Narrenschiff, scritto da Brandt nel 1494, reso poi noto dall’edizione latina di Jakob Locher, del 1497, intitolata Stultifera navis, dove si trova anche la celebre incisione di Dürer. Di fronte a quella enciclopedia e pinacoteca di centododici ritratti in cui trovano raffigurazione le varie condizioni sociali, gli usi, i costumi, le deformazioni della coscienza, come non pensare a Lutero, all’Umanesimo tedesco? In fondo, quel catalogo di satira morale – nota Ghelardi – divenne ben presto anche «una fonte di ispirazione per le prediche». Nelle intenzioni stesse di Brandt, la nave dei folli è una sorta di imago mundi, una sorta di emblema dell’età di completa decadenza morale del tempo, anzi, potremmo dire che si tratta della “faccia notturna” di ciò che Jakob Burckhardt nel suo libro celeberrimo Civiltà del Rinascimento in Italia avrebbe poi chiamato “la scoperta dell’uomo e del mondo”. Pensate che le xilografie si limitino a illustrare passivamente il poema di Brandt? O che il dipinto di Bosch segua pedissequamente il testo? Piuttosto, da un lato si tratta per Dürer di un’occasione unica per entrare nel circolo degli umanisti tedeschi, ma sviluppando un proprio autonomo gusto per il quotidiano, mediante un realismo psicologico che non si accoda, ma dialoga col contenuto dei versi. La Nave dei folli di Bosch, invece, «è proprio una “figura” che rivaleggia con quella che appare come una, ancorché importante, fonte di ispirazione».

Abbiamo voluto anticipare sono soltanto le prime due tappe di un viaggio: la scoperta delle altre tre – e soprattutto degli intrecci che si creano con l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, così come con il nesso tra follia ed epifania del sacro nell’inverno di Brueghel il Vecchio – sono affidati alla curiosità del lettore.